Venezia 79, mezza delusione per “The Whale” di Aronofsky. Commuove Brendan Fraser che in scena pesa 250 chili
Quando la poetica dolcezza dei mostri della Universal incontra la crudezza cronachistica del dottor Nowzadarian. The Whale di Darren Aronofsky è una mezza ed inattesa delusione. Compitino sintetico e anche un po’ stitico, l’ultima fatica indie (produce A24) del regista di The wrestler in Concorso a Venezia 79, è un’inedita chiusura a riccio in un’unità spazio/temporale priva di inventiva formale rispetto alla visionarietà e allo sfondamento di quinta a cui il regista statunitense ci aveva abituato negli ultimi anni. In un appartamento di una città dell’Idaho, nell’ampio spazio tra sala e cucina giace perennemente seduto su un divano l’obeso Charlie (Brendan Fraser con una tuta protesica enorme da 130 chili per fargli raggiungere un peso quasi doppio), un ex professore di letteratura che ora fa lezioni online oscurando il proprio riquadro per non mostrarsi fisicamente e nel recente passato fuggito da casa per vivere una relazione gay con un suo studente poi morto.
Il senso di colpa per il disfacimento della sua vita e di quella di chi gli stava attorno l’ha portato ad abbuffarsi con ogni tipo di cibo fino a condizioni estreme e intollerabili per il suo corpo. Charlie riceve puntualmente visita da un’amica infermiera che lo aiuta nelle solite oramai sempre più frequenti e drammatiche crisi respiratorie; una figlia 17enne con la quale cerca di riconnettere un rapporto paterno mai sviluppato; un giovane predicatore di una setta religiosa apocalittica che suona alla porta e con cui si instaura un dialogo amichevole; infine da una ex moglie che sembra sbucare soporifera dal nulla. A detta dell’infermiera, Charlie, 238 su 134 di pressione, dolori continui al petto, ha pressappoco una settimana di vita. Non volendo alcun aiuto ospedaliero (non è assicurato e non vuole esserlo) passerà i suoi ultimi giorni nel suo appartamento, ingurgitando bibite gasate, snack, pizze, panini a quintali per accelerare il proprio decesso, e provando a ricostruire attraverso l’insegnamento di una scrittura sincera e personale il rapporto con la figlia.
Conto alla rovescia sulla fine imminente permettendo, The whale è un nuovo aggiornamento sulla poetica nichilista di Aronofsky e sulla sua galleria di personaggi autodistruttivi, sofferenti, inadeguati al vivere sociale, qui aggravati ulteriormente dall’isolamento prodotto dalla tecnologia. E se la fede non può dare alcuna risposta ai dilemmi esistenziali, solo un temino su Moby Dick scritto anni prima dalla propria rabbiosa figlia, potrà mostrargli “la luce” prima che la morte se lo porti via. Per carità, The whale – ovvero quella balena del racconto di Melville che dà tanta tristezza – è un film da fazzoletti spianati e usati a più non posso, con una performance mimetica di Fraser dosata sui volumi del pianto e della disperazione che gli varrà una nomination assicurata agli Oscar e l’affetto incondizionato del pubblico verso il “diverso” (più sul versante mostro buono e gentile dei film di Del Toro). Eppure da un regista come Aronofsky quell’appoggiarsi e puntare tutto su una drammaturgia teatrale (Samuel D. Hunter che questo fa di mestiere) tutta dialogo reiterato e statica messa in scena, sembra un delitto di lesa maestà del cinema.
Nulla di grave e irreparabile, ma il peso della reiterazione dello schema del racconto (Charlie sta male, entra l’infermiera, entra la figlia, entra il ragazzo, ad libitum) si subisce fin dalla prima mezz’ora e non si modifica fino alla fine. Il bignami del nuovo decalogo hollywoodiano antidiscriminazione per partecipare agli Oscar fa capolino (la relazione del protagonista è gay, l’infermiera è asiatica) ricordandoci che sono lontani i tempi in cui Mickey Rourke schizzava sangue dopo essersi tagliato con l’affettatrice e Jennifer Connely si immolava nuda in una gara di dildo anali in primo piano. L’augurio è che prima di finire pompieri si rimanga incendiari ancora per un po’.
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