Trevi: “Scelsi D’Annunzio e iniziai a scrivere. Da allora ho imparato a buttarmi”

di Emanuele Trevi

La prova raccontata dallo scrittore: “Ancora me la sogno come accade a tantissima gente, asini o secchioni non importa”. Un disguido l’annulla “e dobbiamo ripeterla”

Ancora me la sogno, la prova scritta della maturità, come accade a tantissima gente, asini o secchioni non importa. Nel sogno, puntualmente, si realizzano condizioni a dir poco catastrofiche e grottesche. Tanto per cominciare, sono un uomo adulto, e anche i compagni e le compagne di classe sono invecchiati come me. Ma un solito disguido burocratico ha annullato la nostra maturità: e dobbiamo ripetere tutto, pena la perdita del lavoro, della nostra stessa dignità di animali sociali.

Ma c’è di peggio: perché mi può capitare di rendermi conto, con intollerabile vergogna, che per la fretta e l’ansietà mi sono presentato nudo alla prova, e cerco di rimediare usando il dizionario di italiano come scomoda e inadeguata foglia di fico. Oppure, la mia Bic comincia a riversare inchiostro sui fogli protocollo debitamente timbrati e firmati dalla commissione d’esame, e tutto il banco si trasforma in un vischioso lago blu, mentre i professori mi guardano imperscrutabili come le statue dell’Isola di Pasqua. In un’ulteriore variante kafkiana, il tempo passa, scorrendo spedito verso la temuta campanella finale, ma io non posso iniziare, il foglio rimane immacolato, sono costretto ad aspettare un segnale che non arriva, e io me ne sto lì imbarazzato e angosciato mentre tutti gli altri scrivono manco fossero Tolstoj.

Azzardo un’interpretazione fin troppo facile, ma tutto sommato credibile: questi sogni sono generati dalla parola stessa, “maturità”, che genera in chiunque un senso di colpevole inadeguatezza. È quella parte di noi che non ne vuole sapere di “maturare”, nemmeno a novant’anni, che fa capolino nel sogno creando un corto circuito con la “maturità” in senso scolastico. E dire che nella vera prova d’esame le cose andarono più che lisce. Sono passati esattamente quarant’anni: l’Italia aveva vinto il Mondiale, e il mondo era più facile e rassicurante di quello che è toccato in sorte ai ragazzi di oggi, ma forse già allora chi aveva fatto la maturità quarant’anni prima faceva gli stessi ragionamenti.

Non scelsi il tema di attualità, ma quello di italiano: dal bussolotto delle tracce venne fuori il Decadentismo, mentre tutti, nei giorni precedenti, davano per sicuro Eugenio Montale (ben prima dei social e delle chat le tracce della maturità generavano infinite leggende metropolitane). A patto di aver studiato un po’ e di ricordare al momento qualcosa, ho sempre consigliato di evitare l’attualità, che è una fonte di luoghi comuni che appesantiscono la concentrazione e la scrittura. Io mi butto sul Piacere di d’Annunzio, sulle fatiche estetiche e amorose di Andrea Sperelli.

Procedevo a memoria, non avevo appunti nascosti in tasca e nelle scarpe. Mi accorsi per la prima volta che, per scrivere qualcosa, l’essenziale è iniziare a scrivere, senza baloccarsi con le proprie insicurezze. Sappiamo sempre più di quello che crediamo di sapere. E questa regola aurea me la sono portata appresso per tutti questi anni, è diventata il mio metodo. In bocca al lupo a tutti, allora. Buttatevi, e qualcosa verrà fuori.

21 giugno 2022 (modifica il 21 giugno 2022 | 22:17)

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