Tagliare i fondi alla diplomazia non ha aiutato il Regno Unito a contare di più nel mondo

Nel marzo 2021, dopo il completamento di Brexit, il governo britannico pubblicò e promosse con toni entusiastici un documento che indicava la strategia che avrebbe dovuto portare il Regno Unito ad aumentare la propria rilevanza nella politica internazionale: era una cosa per certi versi attesa, visto che tra i sostenitori di Brexit era molto diffusa l’idea che l’appartenenza all’Unione Europea avesse frenato lo sviluppo dei rapporti diplomatici e commerciali del paese con gli stati al di fuori dell’Unione.

A poco più di un anno di distanza, però, i cambiamenti auspicati dal documento non si sono realizzati; anzi, il governo guidato dal conservatore Boris Johnson è stato criticato dentro e fuori la maggioranza per avere ridotto i fondi destinati alla diplomazia e alla cooperazione nazionale, cioè quelli che determinano in gran parte il peso specifico di un certo paese sul piano internazionale.

Johnson aveva posto le basi per un rilancio del ruolo internazionale del Regno Unito già nel 2020, quando aveva imposto una fusione fra i due dipartimenti del governo che si occupavano di politica estera (il Foreign and Commonwealth Office, FCO) e di cooperazione internazionale (Department for International Development, DfID). L’obiettivo era rendere più coerenti i rapporti diplomatici, commerciali e di cooperazione che il governo britannico porta avanti nel mondo.

Fin da subito la decisione fu accolta con qualche scetticismo sul fatto che i due dipartimenti potessero lavorare insieme con efficacia, dato che avevano priorità e sensibilità diverse: il FCO lavorava spesso a stretto contatto con aziende britanniche interessate a espandere i propri interessi all’estero, mentre il DfID lavorava soprattutto a progetti umanitari per ridurre le disuguaglianze e combattere la povertà. Ai tempi Andrew Mitchell, deputato Conservatore e segretario di stato per la Cooperazione fra 2010 e 2012, disse al Guardian che non si trattava di una fusione ma di una «acquisizione» da parte del FCO ai danni del DfID.

A un anno di distanza è avvenuto effettivamente quello che è stato definito uno «scontro di culture» fra i due dipartimenti, ma il problema più grande sembra sia stata la mancata riorganizzazione: il mega dipartimento nato dalla fusione, il Foreign, Commonwealth and Development Office (FCDO), ha due segretari di stato e dieci direttori generali. Simon McDonald, sottosegretario Conservatore dell’ex dipartimento per la Cooperazione internazionale fra il 2015 e il 2020, ha detto a Politico che la «necessaria razionalizzazione» delle gerarchie non è mai stata realizzata. McDonald sostiene che sia stato soprattutto un problema di soldi: «In una fusione servono soldi per fare un po’ di ristrutturazione, e questo comporta dei costi».

Il problema dei fondi non riguarda solo l’organizzazione del FCDO, ma tutto il suo funzionamento. Secondo un’analisi di Politico, l’amministrazione Johnson ha ridotto del 5 per cento i fondi destinati al mega dipartimento rispetto al periodo appena precedente alla fusione, in cui il FCO e il DfID erano due entità separate.

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I tagli hanno colpito programmi e paesi molto diversi. Secondo una stima del National Audit Office, un organismo governativo ma indipendente, il nuovo mega dipartimento ha ridotto il budget a disposizione in 35 dei propri 44 uffici di distaccamento all’estero, tagliando per esempio del 69 per cento il budget per il 2021-2022 dell’ufficio in Siria o del 49 per cento il budget dell’ufficio in Sud Sudan. Nel frattempo Johnson ha annunciato che il governo britannico non avrebbe rispettato la promessa di investire lo 0,7 per cento del proprio PIL nei fondi per la cooperazione, limitandosi a una spesa pari allo 0,5 per cento.

Nell’autunno del 2021 inoltre il governo britannico ha venduto un pezzo dello storico edificio che a Tokyo, in Giappone, ospita l’ambasciata britannica, in una decisione simbolica criticata nei mesi successivi sia dall’attuale ministra degli Esteri Liz Truss sia da uno dei suoi predecessori, il deputato Conservatore Jeremy Hunt, secondo cui la vendita di parte dell’ambasciata britannica in Giappone «ha mandato il segnale sbagliato».

Il fatto che la ministra attuale e Hunt, in carica dal 2018 al 2019, abbiano posizioni diverse da chi prese la decisione di vendere il palazzo dell’ambasciata mostra un altro dei problemi del FCDO, e più in generale una delle ragioni del mancato rilancio del ruolo del Regno Unito nel mondo: il frenetico turnover dei politici a capo della politica estera britannica.

Politico ricorda che negli ultimi quattro anni il governo dei Conservatori ha cambiato quattro ministri degli Esteri e tre sottosegretari con delega ai rapporti con l’Europa: nessuno di loro ha avuto il tempo di costruire reti di relazioni e rapporti di fiducia con diplomatici e funzionari di carriera.

I tagli decisi dal governo sono stati giustificati con le perdite economiche innescate dalla pandemia da coronavirus. Anche in Italia, del resto, i fondi per la cooperazione sono diminuiti fra 2019 e 2020 in corrispondenza col picco della pandemia. Ma la decisione di fare dei tagli proprio all’FCDO è stata comunque di natura politica: il governo Johnson ha scelto di tagliare i fondi per la politica estera e la cooperazione internazionale piuttosto che altri.

Il dipartimento del Tesoro ha detto che le risorse a disposizione del FCDO, soprattutto per la cooperazione internazionale, dovrebbero tornare disponibili nel 2024 o nel 2025, a seconda di come andrà l’economia britannica. Ma bisognerà capire se nel frattempo il Regno Unito avrà mantenuto o cambiato le proprie ambizioni sul piano internazionale.

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