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Perché Taiwan è importante per Cina e Usa. Gli scenari

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Roma, 2 agosto 2022 – Una questione strategica, di proiezione di potenza, di credibilità verso gli alleati e di ambizioni di modifica degli attuali assetti regionali e globali: con la Cina che ambisce almeno al rango di potenza regionale con diritto di intervento nel suo “cortile di casa” e l’America che vuole mantenere il suo status di potenza globale in tutti i quadranti. Una questione che va oltre il riconoscimento della sovranità di Taiwan.

Nel dopoguerra, per tre decadi, Washington e Taipei intrattennero relazioni diplomatiche mentre Pechino era ufficialmente un nemico, basti pensare alla guerra di Corea del 1950-’53 o alla crisi dello stretto di Taiwan del ’54-’56. Ma negli anni Settanta l’America decise, su impulso di Richard Nixon, di stabilire legami diplomatici con Pechino, riconoscendola formalmente. E questo comportò il disconoscimento del riconoscimento di Taiwan. “Il governo degli Stati Uniti d’America riconosce la posizione cinese secondo cui esiste una sola Cina e Taiwan fa parte della Cina“. Con questo secondo comunicato congiunto di Stati Uniti e Cina, emesso il 1° gennaio 1979, l’Amministrazione Carter non riconobbe più Taiwan come Stato sovrano, ma mantenne “relazioni culturali, commerciali e altre relazioni non ufficiali con il popolo di Taiwan”.

L’annuncio di Carter fece arrabbiare molti membri del Congresso, che approvarono il Taiwan Relations Act, che conferiva a Taiwan quasi lo stesso status di qualsiasi altra nazione riconosciuta dagli Stati Uniti, imponeva la continuazione della vendita di armi e istituiva l’AIT, un atto legislativo sostenuto dall’allora senatore Biden nel 1979 e firmato in legge dal presidente Jimmy Carter. Gli Stati Uniti non riconoscono formalmente Taiwan come Paese, né accettano la pretesa di Pechino che l’isola faccia parte della Cina. Ufficialmente, Washington non prende posizione sulla sovranità di Taiwan. Il TRA è noto come il principale strumento attraverso il quale gli Stati Uniti vendono legalmente armi a Taiwan, un impegno continuo per l’autodifesa dell’isola contro la Cina, per garantire che il suo futuro sia determinato da mezzi pacifici “coerenti con i desideri e i migliori interessi del popolo di Taiwan”, secondo Washington. La legge richiede anche che gli Stati Uniti mantengano la propria “capacità di resistere a qualsiasi ricorso alla forza o ad altre forme di coercizione che possano mettere a rischio la sicurezza o il sistema sociale o economico di Taiwan”, ha sottolineato il Segretario di Stato Antony Blinken nel discorso sulla politica cinese dell’amministrazione Biden, lo scorso marzo. Una posizione ambigua.

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Lo scorso maggio Biden, durante una conferenza stampa a Tokyo, ha risposto “sì” quando gli è stato chiesto se fosse disposto a intervenire militarmente per difendere Taiwan in caso di invasione da parte della Cina. “È l’impegno che abbiamo preso”, ha aggiunto. Ma da qui a un diretto coinvolgimento in una guerra con la Cina, ce ne corre. L’affermazione di Biden, che poi la Casa Bianca ha precisato non implica un cambio di strategia americana, è probabilmente parte della guerra di parole tra le due capitali.

Taiwan è parte di un ben più ampio confronto sistemico con la Cina. “Il governo statunitense – hanno scritto Paul Haenle e Sam Bresnick del Carnegie Institute – è stato per decenni preoccupato dal mercantilismo, dalla rapida modernizzazione militare e dall’approccio illiberale ai diritti umani della Cina, ma ha nutrito la speranza che la Cina potesse liberalizzarsi attraverso contatti sempre più solidi con il resto del mondo. La Cina vuole che gli Stati Uniti le concedano lo spazio che ritiene di meritare come potenza in ascesa, almeno nel proprio cortile di casa. Pechino, in quanto attore economico e di sicurezza asiatico preminente, vede la presenza militare degli Stati Uniti nell’Asia orientale e sudorientale come intrinsecamente minacciosa. Inoltre, spera che Washington allenti la pressione, soprattutto per quanto riguarda l’economia e la tecnologia. È improbabile che Washington si astenga dal mettere in discussione l’autoritarismo, il mercantilismo e il trattamento delle minoranze etniche e dei dissidenti cinesi. Le politiche più dure e l’approccio più conflittuale degli Stati Uniti mirano a contrastare e a difendersi da una serie di pratiche interne ed estere cinesi che minacciano di minare le regole e le norme internazionali in vigore dalla fine della Seconda guerra mondiale, nonché di aumentare i costi che la Cina deve sostenere per rivedere questo stesso ordine”.

Improbabile che l’America possa rischiare una guerra con la Cina, semplicemente perché gli interessi americani con Taiwan non sono così vitali rispetto al rischio di una guerra nucleare. “Sebbene ci siano molte ragioni convincenti per preferire che Taiwan rimanga democratica e mantenga la sua affinità con l’Occidente – osserva Melanie W.Sisson del Brookings institute –  questi risultati non sono così vitali da meritare una strategia per la quale la conseguenza immediata di un fallimento è una guerra di alto livello con un avversario dotato di armi nucleari”. E così è probabile che ci sia pieno supporto a Taiwan, anche con aiuti militari massicci, ma senza un coinvolgimento diretto, uno scenario simile a quello che vediamo in Ucraina

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