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Non amare la maglia: Pfannenstiel, il portiere che ne cambiò venticinque

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Non ci sono più le bandiere di una volta. Un mantra che torna a bussare, ogni volta più tamburellante, quando quello che pareva il messia di turno saluta la compagnia in cambio di un conto in banca sensibilmente rimpolpato. Eppure, verosimile oggi quanto una sferzata di neve a Gabicce mare mentre sbocconcelli una piada, c’è anche chi cambia per il solo gusto di farlo. Per quel brivido freddo che ti si infila tra le scapole quando sei costretto a contemplare la tua comfort zone che si dissolve nello specchietto.

Deve averla pensata così, Lutz Pfannenstiel, nel lontano 1993. Nato a Zwiesiel, in Baviera, un fisico scultoreo abbinato a riflessi invidiabili, a soli vent’anni si ritrova incollato alla cornetta. Dopo una scintillante stagione tra i pali del Bad Kotzting, le richieste si moltiplicano. Due in particolare attirano la sua attenzione: la prestigiosa chiamata del Bayern Monaco. Una surreale richiesta proveniente dalla Malesia, firmata Penang FA. Serve davvero rimuginarci? No, ovviamente: alza il telefono e avverte il suo procuratore. “Ok per la Malesia”.

Con Lutz, del resto, due più due rischia raramente di fare quattro. Dopo un anno passato a ciondolare nel sudest asiatico decide che ne ha avuto abbastanza. Torna in Europa, ad inspirare calcio vero. La destinazione è tutt’altro che banale: Wimbledon, Crazy Gang. Le cose però non funzionano: un anno e passa oltre, firmando per il leggendario Nottingham Forest. Delusione anche qui, valige da rifare.

La sua carriera

Atterra in Belgio, sciarpa del dimenticabile Sint Truidense avvitata intorno al collo, ma non trova lo spazio che cerca. Altra scaletta d’aereo, altro panorama che prende forma gradualmente: Malta, il Sudafrica, la Finlandia, poi di nuovo la Germania. Il Wacker Burghausen non è certo una nobile del calcio teutonico, ma lui sfodera prestazioni sontuose, attirando nuovamente le attenzioni di club di prima fascia. Ce ne sarebbe abbastanza per pensare di mettere finalmente radici nel suo paese d’origine, ma l’attitudine al nomadismo è irrefrenabile.

Parte di nuovo, stavolta per Singapore. Qui le cose gli girano alla grande, fino a quando non lo sbattono in carcere per un mese di fila, con l’accusa infamante di aver scommesso su alcune partite del suo club, il Geylang United. Se la cava e viene prosciolto, dopo giorni interi passati senza mangiare né bere: “L’esperienza peggiore della mia vita”, bofonchierà uscendo di prigione.

La voglia di esplorare è un rubinetto che zampilla senza sosta. Se la abbini ad un’abbondante dose di eccentricità, la detonazione è assicurata. Come quando, trasferitosi in Nuova Zelanda, un giorno decide di sequestrare un pinguino da uno zoo. Esasperato afflato animalista o semplice botta di follia? Comunque non conta: dopo averlo tenuto per due giorni nella sua vasca da bagno decide, persuaso dall’allenatore, di restituirlo al mittente.

Ma l’esperienza più squassante è certamente quella vissuta al Bradford Park Avenue, ottavo gradino della piramide calcistica britannica. Qui, durante il Boxing Day del 2002, il ginocchio del centravanti avversario Clayton Donaldson gli si conficca dritto nello stomaco, esito infausto di un’uscita coraggiosa. Impatto terribile. Pfannenstiel sembra svenuto. In realtà non respira. Il cuore ha smesso di battere. Lo stadio affonda in un silenzio surreale. Si pratica un massaggio cardiaco che non sembra sortire effetto. In tribuna, la moglie incinta di sette mesi suda freddo. Poi il miracolo: Lutz riapre gli occhi, ma è solo per un istante. Il battito si interrompe ancora. Succede per un totale di tre volte. In ospedale, finalmente, viene stabilizzato. Una settimana dopo, fenomeno dell’incoscienza, è di nuovo tra i pali della sua squadra, acclamato come il “portiere risorto tre volte”.

Pfannenstiel cambierà squadra ancora e ancora. Cinque continenti. L’unico giocatore al mondo ad aver preso parte a tutte e sei le confederazioni della FIFA. Venticinque diverse squadre di club. Non amare la maglia, ma per i motivi giusti.

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