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Monti: «Scudo anti-spread? Prima facciamo le riforme, poi chiediamo aiuto alla Bce»

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l’intervista

di Antonella Baccaro12 giu 2022

Monti: «Scudo anti-spread? Prima facciamo le riforme»
Il senatore Mario Monti

Presidente Monti, ci risiamo. Lo spread è a 234 punti. Che analogie vede con la crisi del 2011 che portò alla formazione del suo governo?

«Poche, salvo che si torna a parlare di scudo anti-spread. Allora lo spread toccò 574 punti. Furono avviate dure misure di risanamento. L’Italia non chiese che l’Europa la salvasse, ma solo che si tenesse conto che il nostro spread incorporava una grande parte non “fatta in casa”. Era il premio per il rischio-euro che, in quella situazione di crisi nell’eurozona, i mercati chiedevano a chiunque emettesse titoli in euro. E in misura maggiore per i Paesi che avevano i debiti pubblici più elevati, creati nel passato, anche se stavano conducendo politiche per ridurre il disavanzo».

Lo spread oggi ha natura diversa?

«A venerdì lo spread era a 234 punti, ben superiore a quello francese (62), spagnolo (130), portoghese (126), cipriota (165) e poco più basso di quello greco (288). Ma al livello attuale il nostro spread è giunto dopo una continua salita iniziata dal minimo di 90 del febbraio 2021, alla fine del governo Conte».

Quindi non è possibile chiedere aiuto alla Bce?

«Con uno spread tutto “fatto in casa”, e in assenza di crisi nell’eurozona, non siamo nelle condizioni più favorevoli per “pretendere” che la Bce si allontani dalla rotta per favorire un Paese che si è messo da sé in questa situazione, pur fruendo di un governo particolarmente autorevole e dopo essere stato il Paese meglio trattato dall’Europa da diversi anni a questa parte (vedi quota dei fondi del Next Generation EU e enorme accollo di titoli da parte della Bce)».

Intanto però alcuni partiti invocano la predominanza dell’interesse nazionale.

«Certo, ma un conto sono richieste motivate, un altro l’accattonaggio. La dignità non fa parte anch’essa dell’interesse nazionale?».

In che senso?

«È giusto che ogni Stato membro cerchi di influenzare la riformulazione delle diverse regole europee secondo le proprie visioni e convenienze. Ma si ha a volte l’impressione che componenti importanti della politica italiana siano contrarie al fatto stesso che tornino regole europee, sia pure emendate».

Da cosa lo deduce?

«Da quello che in questi giorni è stato obiettato alla Bce. Vedo due insofferenze: verso una politica monetaria comune, corollario indispensabile della moneta unica. E verso una politica monetaria che punti al controllo dell’inflazione e non invece a creare la moneta necessaria per finanziare lo Stato (italiano). Se così fosse, lo Stato potrebbe continuare a spendere senza aumentare le imposte. E il maggiore disavanzo non farebbe salire neppure i tassi di interesse. Bella illusione, che però genera inflazione e debito pubblico. Come l’Italia dovrebbe avere imparato».

Ma la spesa pubblica è da tempo sotto controllo.

«In realtà a determinare decisioni politiche più responsabili fu il “divorzio” tra il Tesoro e la Banca d’Italia, messo a punto dal Governatore Ciampi, con il ministro del Tesoro Andreatta, nel 1982. Fu una delle condizioni necessarie per entrare nell’euro».

Il perdurare del Quantitative Easing ha ridato fiato a certe cattive abitudini?

«Il QE, messo in campo opportunamente dalla Bce nel 2015 per contrastare la recessione dovuta anche alle politiche contraddittorie dalla stessa praticate nel 2011 e 2012, ma protrattosi troppo a lungo e per importi ingenti, ha di fatto ricreato a Francoforte la commistione impropria tra finanziamento degli Stati e politica monetaria».

Quindi condivide la fine graduale del QE?

«La decisione reintroduce più separatezza tra disavanzi pubblici e creazione di moneta. Anche se in continuità con Ciampi, era prevedibile che non avrebbe fatto contenti in Italia quelli che hanno sempre vissuto male quel “divorzio”. D’ora in poi, verranno immessi minori quantitativi di “droga” nei mercati e nelle decisioni politiche».

Ma le indicazioni di Lagarde sulla fine del QE sono state troppo generiche?

«Non ha specificato in concreto come metterebbe in opera uno “scudo anti-spread” a favore dei Paesi per i quali il venir meno della droga spedita da Francoforte farebbe salire troppo gli spread. È giusto che in Italia si discuta molto di questo, ma attenzione: prima di tutto occorre un maggiore impegno da parte dei singoli Paesi più esposti».

Parla di riforme? Quelle del suo governo hanno lasciato un segno nell’opinione pubblica.

«Era inevitabile in tali condizioni. Dal 2015 a oggi, con varianti da governo a governo, le riforme strutturali sono state spesso ritardate e annacquate, quando non si è cercato di cancellare quelle introdotte. La condiscendenza europea sui disavanzi si è spesso tradotta in spesa corrente (bonus in primis) più che in investimenti pubblici. Lo “scostamento di bilancio”, introdotto come eccezionale nella riforma costituzionale del 2012, è ora routine. Bene ha fatto il governo, negli ultimi mesi, a palesare opposizione a nuovi usi disinvolti».

Dice che è ora di tornare a fare i compiti?

«Dico che è un vero peccato che l’Italia debba entrare in questa nuova fase delle politiche europee senza aver tratto tutti i benefici possibili dalle eccezionali facilitazioni offerte fin qui».

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