Mamma Katia: “Aurora è morta a 13 mesi. A chi perde i figli dico: fateli sentire amati fino alla fine”

Aurora è nata nel 2002. Ma è stato un sogno destinato a infrangersi troppo presto. Katia Garzotto, che oggi ha 53 anni e vive a Roma con il marito e i suoi due figli, allora quella bambina l’aveva desiderata tanto. Una gravidanza cercata, dai novelli sposini, che si è dimostrata essere preludio però di una terribile tragedia, di quelle che ti segnano per sempre. La loro Aurora è morta nel 2003. Ad appena tredici mesi di vita. “Quando meno ce lo aspettavamo arriva questa gravidanza – ci racconta la donna -. Procede bene fino alle 9 settimane, quando ho avuto una brutta emorragia“. È da questo episodio che prende il via una vicenda drammatica, che Katia racconterà nel libro “Oltre l’impossibile” (Brè Edizioni, 2022). Un’autobiografia, un atto d’accusa contro la malasanità, ma soprattutto è un grido di dolore di una madre che ha sofferto, tanto, troppo.

La gravidanza di Katia e il parto

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Katia Garzotto incinta di Aurora

“Al Pronto Soccorso trovo un medico che mi dice di non sapere cosa fare. Mi rivolgo quindi al mio ginecologo che mi dà una cura e la gravidanza procede senza più episodi pericolosi”, continua Garzotto. I successivi mesi procedono senza scossoni, “Faccio le ecografie di controllo in ospedale, mi dicono che il feto sta bene, lo vedo molto attivo”, spiega. A 42 settimane, arrivato il momento di partorire, Katia si reca in ospedale, non quello dove opera il medico che la seguiva ma uno più vicino a casa, dove lavorano alcune ostetriche conosciute ad un corso pre-parto. “Qui però vengo prima ignorata, poi mi fanno le stimolazioni, quattro, non essendoci accenno di inizio del travaglio. Ma nessuno si era posto il dubbio sul perché non avessi avuto contrazioni” lamenta la donna. La sua voce cambia, diventa dura, mentre mi dice: “Dalle 15, quando inizio con la prima, partorisco il giorno dopo alle 7 del mattino. Quindici ore di travaglio fatte quasi tutte in sedia a rotelle”. Un’ora prima della nascita il tracciato evidenzia una grave sofferenza fetale, la bimba rischia di morire. “Mi caricano in barella e mi portano d’urgenza in sala operatoria. Quando mi sveglio dall’anestesia la bambina non c’è, è stata portata in un altro ospedale”.

La malattia: 13 mesi di sofferenza, quindi la morte prematura

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Mamma Katia con la piccola Aurora

Aurora nasce con una rara malattia, la sindrome di Goldenhar, caratterizzata da malformazioni importanti ma non diagnosticata durante la gravidanza. “Alla nascita le mancava l’orecchio, l’occhio appena appena si apriva, aveva un buco aperto nel taglio bocca-naso”. Il marito di Katia, a cui la figlia viene fatta vedere subito, è sotto shock ma decide di non dire nulla alla moglie, per il momento, per non farla soffrire. “Quando mi sono svegliata, mi ha detto solo che la bimba stava bene, aveva solo il labbro leporino. Dopo mi ha spiegato che quello che gl’ha fatto più male, in quel momento, è stato il fatto che la bambina fosse stata isolata dagli altri neonati, messa in disparte”. Quando la mamma viene a sapere della malattia della piccola il mondo le crolla addosso.


“L’ho incontrata per la prima volta che era in incubatrice, tutta incerottata, coi fili attaccati, con uno attrezzo in bocca che le impediva di mandare la lingua indietro…”.


A 3 mesi dalla nascita ad Aurora i medici non danno più di 7 mesi di vita. Per i suoi genitori inizia il calvario, cercano altri pareri ma tutti i dottori pronunciano la stessa diagnosi, “mi dicono che non c’è nulla da fare. Le mancava il ponte celebrale, il cervelletto, era una sorta di vegetale. La piccola doveva essere alimentata con il sondino naso gastrico 7 volte al giorno, ma non volevo farlo perché per lei era una sofferenza atroce”, spiega Katia. Non emetteva suoni, non piangeva. Dopo cinque mesi la portano a casa, proseguono le cure costanti e i ricoveri continui in terapia intensiva per crisi respiratorie. “Dopo 13 mesi non ce l’ha fatta più. L’ultima crisi è stata fatale”, conclude, ancora commossa nel parlarne.

Il libro Oltre l’impossibile

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Il libro di Katia Garzotto, “Oltre l’impossibile” in cui racconta la tragica perdita della figlia Aurora quando aveva solo 13 mesi per una rara malattia

Quello che mai una madre, una donna, si aspetterebbe di dover vivere, di dover subire, “l’impossibile“: la morte di un figlio, sopravvivere al bambino o alla bambina messi al mondo. Questo racconta Katia Garzotto nel suo libro, provando ad andare oltre, perché se questa non è una storia a lieto fine nulla e nessuno può descrivere meglio di chi attraversa la tragedia come si fa a sopravvivere. “Ho voluto raccontare tutto, per testimoniare anche quanta cattiveria c’è in ospedale, in strutture dove ci sono bimbi che soffrono. E poi perché quando è successo avevo bisogno di confrontarmi con altre mamme. In ospedale, quando Aurora era ancora viva, avevo conosciuto altre madri con bambini che ce l’avevano fatta e altri no; avevo bisogno di sapere da altre donne che avevano vissuto la morte di un figlio come andare avanti, come si facesse a sopravvivere alla perdita. Per avere conforto, per andare avanti“.

Come è arrivata alla stesura del libro?

“Sono capitata in un gruppo di lettura dove si condividevano brutte esperienze vissute: raccontando la mia storia mi è stato proposto di scriverne un libro. Dopo un po’ di esitazioni ho iniziato, partendo da un episodio preciso. La casa editrice mi ha sempre supportato, mi sono sempre stati vicini. Ci ho messo un po’, non essendo una scrittrice ho fatto fatica. Ma alla fine ce l’ho fatta e sono state tante le mamme che mi hanno ringraziato di persona e online per la mia testimonianza, che rispecchia le loro”.

Nel libro cita gli ospedali o i medici con sui ha avuto a che fare nella sua disgrazia?

“No, non ho voluto fare nomi né dei dottori né degli ospedali, perché la malasanità si trova ovunque”

La sua vita è poi andata avanti, ha avuto anche due bambini. Come c’è riuscita?

“Subito dopo Aurora volevo disperatamente un figlio. Per me era difficile uscire di casa e vedere una mamma con un bambino; ho avuto anche problemi con la mia famiglia, mi ero allontanata: ho 5 fratelli, a distanza di pochi mesi dalla nascita della mia, ognuno di loro ha avuto una figlia. Vedevo crescere le mie nipoti e me le immaginavo come la mia Aurora. È stato molto doloroso. Mi sono chiusa in me stessa, sono rimasta incinta ma ero troppo debilitata e ho avuto un aborto spontaneo. Avevo continui attacchi di panico ma ho cercato di non prendere farmaci. Poi, quando sono rimasta incinta del mio secondo figlio, ho iniziato a stare meglio”.

Con loro che tipo di madre è?

“Sono stati la mia salvezza, ma i miei bambini non li vivo serenamente come tutte le mamme. Perché ho il terrore di vederli star male, anche per una semplice febbre io entro nel panico. Le mie ansie le ho trasmesse a loro, la mia ansia morbosa mi ha spinto a metterli come in una campana di vetro”.

Per questo ha lasciato il lavoro?

“Prima di rimanere incinta di Aurora ero  commessa in un negozio in un centro commerciale. Dopo essermi fermata nell’anno in cui ho assistito la mia bambina, ho ripreso nella stessa attività. Con la seconda gravidanza e la nascita di mio figlio ho provato a lavorare ancora, ma dovevo lasciarlo tutto il giorno al nido o dai nonni. Quindi, con l’arrivo anche dell’ultimo, ho deciso di lasciare definitivamente il mio impiego, perché volevo dedicarmi interamente a loro. È stata una mia scelta, perché i miei bambini li ho voluti con tutta l’anima e volevo vivermeli”.

Suo marito come ha affrontato questa terribile perdita?

“Lui è stato eccezionale. Con mia sorella, dopo la morte di Aurora e prima che io rientrassi a casa, hanno tolto tutti i macchinari dalla stanza: avevo allestito una sorta di ospedale casalingo. Si è preoccupato di far tornare la camera come era in origine e mi è stato sempre vicinissimo. Però la notte quando è morta, in ospedale, mi ha detto una cosa: ‘Non mi raccontare nulla, non voglio i dettagli’. Ci stava così male che non ha voluto nemmeno leggere il libro. Tante cose ha preferito non saperle. Le infermiere mi chiedevano sempre come andasse tra noi, perché mi hanno spiegato che la maggior parte delle coppie che subivano questa perdita, che avevano bambini che stavano male, si separavano. Invece davvero, mio marito non mi ha mai mai lasciato sola”.

Cosa si sente di dire a una mamma che affronta la perdita di un figlio?

“Se ai genitori viene detto che il loro bambino non può andare avanti, non ha speranze di sopravvivenza, mi sento di dire loro di non lasciarlo mai un momento, di dargli tutto l’amore possibile, senza fargli capire che sono gli unici momenti che trascorreranno insieme. Nonostante mia figlia fosse praticamente un vegetale, la vestivo ogni giorno coi vestitini più belli, le raccontavo le favole, guardavamo i cartoni insieme, le cantavo continuamente canzoncine. Cercavo di farla sentire una bambina come tutte le altre. Quindi è questo che mi sento di dire a queste mamme e papà: di godersi il bambino fino all’ultimo, facendolo ridere, rendendolo partecipe di una vita normale”.

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