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Lo sport sta cambiando approccio con le atlete trans

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Due importanti federazioni sportive internazionali hanno adottato di recente nuove misure restrittive per regolamentare la partecipazione di atlete transgender (che si identificano cioè come donne pur essendo nate di sesso maschile) in ambiti professionistici femminili. Negli sport acquatici la FINA ha escluso dalle competizioni le atlete trans che non hanno iniziato le terapie per la transizione entro i 12 anni d’età, mentre la Rugby League (il rugby a 13) le ha escluse completamente fino a quando non avrà completato l’elaborazione di un nuovo regolamento basato su studi ancora in corso.

Precedentemente, anche la federazione internazionale del ciclismo aveva cambiato i propri regolamenti, mentre la FIFA- l’organo che governa il calcio maschile e femminile – sta rivedendo le sue regole e fin quando non arriverà a conclusioni più o meno definitive valuterà caso per caso. Nell’atletica, invece, si è tornati a parlare di Caster Semenya, mezzofondista sudafricana che vive come donna fin dalla nascita e si identifica come tale, ma ha alti livelli di testosterone nel sangue e rientra nella definizione di intersessualità. Semenya – al centro di uno dei casi più complicati in questo senso – ha rivelato di recente che da giovane si offrì di mostrare i suoi genitali femminili pur di poter gareggiare.

Le tante questioni poste dalla partecipazione di atlete trans alle competizioni femminili sono in continuo cambiamento, perché rappresentano ancora una novità in un mondo, quello dello sport, che tradizionalmente si è diviso sulla base del sesso biologico delle persone e che proprio su quella divisione binaria, e sulla base delle differenze fisiche che ne dipendono, ha articolato discipline, regolamenti e federazioni.

L’estendersi delle sensibilità e delle riflessioni sui diritti delle persone trans è proceduto più rapidamente rispetto alla formazione di opinioni condivise, e sostenute da dati scientifici, su quale sia il modo migliore di includere le donne trans nelle competizioni agonistiche senza penalizzare le donne che si identificano come tali e sono nate di sesso femminile (cisgender). In mancanza di regolamenti certi e univoci questa situazione sta creando parecchie divisioni, soprattutto in ambiti giovanili e specialmente in Nord America, dove i casi sono più che altrove. Ai più alti livelli del professionismo, invece, i casi sono ancora rari, anche se i pochi che ci sono fanno discutere. Nelle due federazioni che di recente hanno adottato nuove misure, non ci sono atlete trans, come non ci sono state finora nello sport d’élite italiano.

(Kathryn Riley/Getty Images)

Il principale argomento alla base delle ultime restrizioni riguarda i vantaggi che le donne trans e iperandrogene – cioè con una produzione eccessiva di ormoni androgeni, in particolare il testosterone – avrebbero nei confronti delle donne cisgender. Per quanto riguarda le atlete trans, ci sono studi che ritengono che questi vantaggi ereditati dalla pubertà maschile, come la densità ossea e muscolare, la grandezza degli arti, la capacità polmonare e cardiaca, abbiano effetti duraturi e determinanti se inseriti nelle competizioni femminili.

Questi studi, però, non trovano ancora un riscontro scientifico unanime, perché ci sono poche ricerche sul tema e i casi sono ancora rari per avere risposte complete, come dimostrato dalle misure temporanee adottate dalle federazioni. Ciò che non è ancora stato quantificato con esattezza è l’impatto, grande o piccolo, che questi vantaggi possono avere su vari tipi di prestazione e in diverse condizioni, cosa che invece è stata stabilita da tempo per quanto riguarda i livelli di testosterone nel sangue.

A influire su questo potenziale vantaggio per le atlete trans è ovviamente l’età, più o meno avanzata, a cui hanno cominciato le terapie ormonali per modificare il proprio corpo, ed è questo uno dei criteri più usati dalle federazioni per determinare chi può competere in quale categoria. Negli sport in cui a determinare risultati e successi è in generale la supremazia fisica, stabilire delle regole in modo da rendere equa la competizione è un obiettivo di fatto essenziale per le federazioni, e la riflessione in corso è in sostanza se e come lo si possa fare in un modo che sia anche inclusivo per le atlete trans. Il problema dell’eventuale vantaggio biologico, va da sé, non riguarda di fatto gli atleti trans, nati cioè con un corpo femminile e non corrispondente al proprio genere maschile, che semmai secondo il medesimo ragionamento sarebbero svantaggiati nella competizione con uomini cisgender.

Nell’ultimo anno si è parlato perlopiù di due casi che hanno dato un’idea della complessità del tema. Uno ha riguardato Laurel Hubbard, sollevatrice neozelandese che alle Olimpiadi di Tokyo è diventata la prima atleta trans nella storia dei Giochi moderni. La qualificazione di Hubbard – che aveva iniziato il percorso di transizione intorno ai trent’anni – era stata criticata in modo particolare dalle altre sollevatrici, che ritenevano ingiusta la sua presenza, così come i successi ottenuti dal 2013 in poi, ovvero con il passaggio dalle categorie maschili a quelle femminili. A Tokyo, però, Hubbard era stata una delle prime atlete eliminate nella sua categoria, e successivamente si era ritirata.

L’ultimo caso è anche il più discusso attualmente, e potrebbe aver spinto la federazione del nuoto a intervenire come ha fatto nel regolamento. Lia Thomas è un’atleta trans americana che dal 2020, dopo essere passata dalle categorie maschili a quelle femminili del nuoto universitario, sta facendo parlare di sé per le vittorie, spesso schiaccianti, che ottiene ovunque si presenti: è diventata per esempio la prima nuotatrice trans a vincere un titolo nazionale nella storia dello sport universitario americano. La sua storia è discussa a livello nazionale negli Stati Uniti, tanto che lo scorso febbraio il governatore repubblicano della Florida, Ron DeSantis, aveva proclamato vincitrice la seconda classificata (nata in Florida) di una gara in realtà vinta da Thomas.

(AP Photo/John Bazemore)

Dopo i successi universitari, Thomas puntava alla qualificazione alle prossime Olimpiadi. Con le nuove regole introdotte dalla FINA non potrà più farlo, perché ha iniziato il suo percorso di transizione tramite terapia ormonale sostitutiva soltanto nel 2019, intorno ai vent’anni. Potrà però continuare a gareggiare in ambiti universitari, dato che lì valgono norme ancora diverse, stabilite autonomamente dalla NCAA, l’organizzazione che gestisce i programmi sportivi universitari.

Le recenti decisioni delle federazioni provengono invece dalle nuove linee guida introdotte dal Comitato olimpico internazionale (CIO), che lo scorso novembre aveva aggiornato quelle in vigore dal 2016. Nel corso di questi anni il CIO ha eliminato l’obbligo dell’intervento chirurgico ai genitali, poi gli esami più invasivi e infine la centralità dei valori del testosterone, non più vincolanti.

Fino all’anno scorso per poter gareggiare nelle categorie femminili le atlete dovevano dimostrare di avere avuto per dodici mesi livelli di testosterone nel sangue inferiori a 10 nanomoli per litro (il valore di testosterone per un uomo cisgender tra i 20 e i 40 anni è compreso tra 10 e 37 nanomoli per litro, mentre per una donna cisgender è inferiore a 2). Ciascuna federazione potrebbe però rimodulare questo limite per renderlo più adatto alla propria disciplina, in genere abbassandolo. D’ora in avanti, invece, i livelli di testosterone verranno presi in considerazione insieme ad altri parametri e a valutazioni fatte caso per caso.

Con la libertà di azione concessa dal CIO alle federazioni, altre decisioni restrittive simili a quelle prese di recente sono attese prossimamente, come ha fatto capire anche Sebastian Coe, presidente della federazione internazionale di atletica leggera, che ha detto: “Se c’è un conflitto tra equità e inclusione, sceglieremo sempre l’equità”.

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