“Le miss col velo? Così ci fanno accettare l’islam radicale”
“Il velo non è sinonimo di sottomissione? Andatelo a dire alle donne picchiate, segregate per mesi o peggio uccise perché volevano vivere all’occidentale”. Per Souad Sbai, attivista italo-marocchina per i diritti delle donne musulmane ed ex deputata eletta con il Popolo della Libertà, il concorso di Miss Hijab, organizzato sabato scorso a Cinisello Balsamo per premiare chi indossa “meglio” il velo veicola un “messaggio sbagliato”.
Perché?
“Intanto chiediamoci perché queste cose ormai si vedano solo in qui. In Marocco i concorsi di bellezza si fanno in bikini. La verità è che ormai gli estremisti sono soprattutto in Europa”.
Le sembra un’iniziativa “estremista”?
“Il concorso di bellezza, in sé, non ha nulla di “islamico”. Vogliono far credere che c’è un’apertura verso le donne, che le donne così sono libere, ma in realtà è una taqiyya, una dissimulazione che viene fatta nell’interesse dell’islamismo”.
E quale sarebbe l’obiettivo?
“Sensibilizzare gli italiani su temi scomodi, come quello del velo, e fare proselitismo. Nel mondo musulmano c’è una crisi di consenso spaventosa e usano queste cose per attirare ragazze e ragazzi. Vogliono conquistare spazi. Vedrà che arriveremo alle “quote velo”, magari anche a Miss Italia”.
Fa parte del processo di integrazione o no?
“Questa non è integrazione, ma un avvicinamento all’accettazione di un pensiero radicale. Per la maggior parte delle donne islamiche il velo rappresenta ancora un obbligo, glielo posso assicurare. E poi, tornando a Miss Hijab, è il principio che è sbagliato”.
Quale?
“La donna è bella solo se porta l’hijab o se porta l’hijab con modestia. E poi succede quello è successo a Peschiera del Garda: un altro caso di taharrush gamea, come quello della notte di capodanno in Piazza Duomo. Le altre donne, quelle che non portano il velo ma la minigonna, non sono degne di considerazione”.
Ma qui si tratta di baby gang, cosa c’entra la religione?
“No, questo è l’islamismo: un progetto sociale, politico ed economico che avanza e che vuole cambiare il nostro stile di vita. Non è un mistero che alcuni Stati, come il Qatar o la Turchia, finanzino le associazioni islamiche integraliste in Europa. Questo è il risultato: le mozioni a favore del burkini in Francia e Miss Hijab a Milano”.
Quindi non si fida delle ragazze che dicono che il velo non è un simbolo di sottomissione?
“Il velo è un simbolo che offende la donna, ma molte femministe lo difendono in nome del multiculturalismo. Lo andassero a raccontare alle donne afghane che stanno dando la vita per la battaglia contro il burqa, simbolo dell’oppressione femminile in quel Paese. Si fidi, sono araba e so cosa c’è dietro…”.
Mi dica…
“Io stessa sono finita nel mirino dei fondamentalisti e ho sostenuto tante donne con la mia Onlus, Acmid-Donna. Una delle ultime è stata Salsabila Mouhib, 33enne marocchina costretta a indossare il velo integrale dal marito. Per cinque anni ha vietato a lei e ai suoi figli ogni contatto con il mondo esterno tenendola prigioniera in casa sua. Altro che libertà di scelta. La tolleranza non può essere a senso unico, ma va rivolta anche a chi sceglie di vivere senza imposizioni”.