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Lavorare da casa, ma osservati

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Nella contrapposizione tra il lavoro in ufficio e quello da casa, emersa durante la pandemia e poi diventata oggetto di estese riflessioni e discussioni, esistono diverse forme intermedie. Una di queste è il cosiddetto “coworking virtuale”, che offre la possibilità di lavorare da remoto e, allo stesso tempo, guardare ed essere guardati da altre persone, in genere sconosciute.

I sistemi di coworking virtuali possono essere organizzati in modo informale, magari tra gruppi di amici che, lavorando da casa, scelgono di accendere le loro videocamere (ma non i microfoni) per farsi un po’ compagnia e scambiare di tanto in tanto qualche chiacchiera, allo stesso tempo cercando però di non distrarsi troppo. Esistono tuttavia anche società che offrono questo servizio a pagamento: “Pagheresti 40 dollari al mese per avere uno sconosciuto che ti guarda mentre lavori?” si è chiesto il New York Times in un articolo in cui ha raccontato il fenomeno.

Sebbene per qualcuno una piattaforma di riunioni virtuali come Zoom possa essere il principale problema nel dover lavorare da remoto, proprio Zoom è al centro di Caveday, uno dei più popolari servizi di virtual coworking.

Fondata nel 2017 da un’organizzatrice di eventi, un direttore creativo e da un aspirante regista, nella sua prima forma, antecedente alla pandemia, Caveday proponeva l’incontro fisico tra persone, le quali si davano appuntamento per un giorno in un determinato ufficio di coworking e – in una giornata scandita da riti, pause e messaggi motivazionali – cercavano di lavorare su determinati progetti rimandati da tempo.

Caveday divenne un evento mensile, organizzò workshop per privati e aziende e aumentò la frequenza dei suoi “caveday” (dei metaforici “giorni nella grotta”).  L’obiettivo, spiegano i fondatori, era offrire qualcosa che fosse «più divertente di una biblioteca, più aggregativo di un coworking e meno dispersivo di uno Starbucks».

Ai “caveday” si aggiunsero sessioni più brevi, giusto di qualche ora, e già prima della pandemia la società iniziò a sperimentare un corrispettivo online di quegli incontri. Caveday iniziò a proporre anche sessioni online di una sola ora, ad offrire per l’appunto abbonamenti mensili da 39,99 dollari e a reclutare alcune decine di “cave guide”, persone che – per conto dell’azienda e in cambio di una retribuzione oraria di 35 dollari – guidano, presentano, moderano e gestiscono le varie sessioni di coworking virtuale (che ora si svolgono su Zoom, ma che in futuro potrebbero spostarsi su una piattaforma a cui l’azienda sta lavorando).

Una delle guide freelance di Caveday è Wenlin Tan, che ha 35 anni, è nata a Singapore, fa l’insegnante di yoga e da poco prima della pandemia vive a Torino. Prima che guida, però, fu cliente. Racconta che venne a sapere di Caveday durante un incontro e che provandolo trovò grande beneficio nel lavorare da casa, da sola, con la videocamera accesa, in una chiamata Zoom con decine di altre persone che facevano lo stesso. «Partecipavo quasi ogni giorno» dice Tan, perlopiù per smaltire faccende relative al marketing, alla fiscalità o alla promozione del suo lavoro da insegnante di yoga. «A me piace solo insegnare» spiega, «ma per il mio lavoro ho comunque bisogno di fare anche altre cose che non mi piacciono».

Dopo alcuni mesi da cliente, quando Caveday si mise a cercare “guide” che vivessero in fusi orari diversi da quelli statunitensi, Tan venne promossa. Ogni sessione (l’azienda parla di “work sprint”) dura poco meno di un’ora o poco meno di tre e «in genere ha un numero di partecipanti compreso tra 20 e 100». Una guida come Tan inizia presentandosi, introducendo la sessione e invitando i partecipanti a rimuovere ogni possibile distrazione (telefono compreso) e a scrivere, dove su Zoom si mette il nome, anche da dove stanno lavorando e a cosa intendono dedicarsi in quella sessione.

Uno dei «pilastri» di Caveday è il concetto di monotask, il fatto cioè che in ogni sessione si debba scegliere di lavorare su una cosa soltanto. Tan – che su Caveday lavora in inglese – dice che nei primi minuti le guide di Caveday condividono anche messaggi motivazionali, frasi ispirazionali o suggerimenti come “scegliete cosa volete portare nella caverna e cosa invece volete lasciare fuori”. Dopodiché le guide svolgono solo funzioni di supervisione e moderazione (per esempio accertandosi che i partecipanti abbiano i microfoni spenti). Al termine di ogni sessione, si celebra insieme il lavoro svolto.

Tra chi partecipa, dice Tan, ci sono molti freelance, in genere intorno ai trent’anni, ma anche studenti, professori, pensionati e persone che cercano compagnia per leggere o fare attività diverse da quelle prettamente lavorative. Qualcuno tiene la telecamera spenta, «ma se possibile», dice Tan, «noi invitiamo a lasciarla accesa». In quello che è senz’altro uno strano giro logico ci sono anche persone, aggiunge Tan, che usano Caveday mentre lavorano dal loro ufficio.

Secondo Tan, che in genere gestisce quatto o cinque ore di “grotta” a settimana, Caveday funziona perché responsabilizza chi lavora, ma anche per tutto il contorno che offre alle sessioni. Ci sono infatti anche un forum, una serie di workshop, un calendario settimanale, una sezione che vende gadget e un blog che contribuiscono, ognuno a loro modo, a «creare un senso di comunità».

Caveday non comunica il suo numero di abbonati, il suo cofondatore Jeremy Redleaf ha detto però al New York Times che «sono migliaia, da almeno 40 paesi» e che a giugno gli utenti attivi abbonati hanno usato Caveday per una media di 16 ore settimanali.

Oltre a Caveday, che di fatto per la sua attività di coworking virtuale si appoggia totalmente su Zoom, ci sono – o potranno arrivare – anche altri servizi simili, magari meno focalizzati sulla parte motivazionale. Tra gli altri, uno che si è fatto notare è Focusmate, in cui anziché partecipare a riunioni di coworking con decine di persone si lavora osservando e venendo osservati, in silenzio, per cinque euro al mese, soltanto da un’altra persona (che cambia ogni volta ma con la quale eventualmente ci si può scrivere).

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