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La storia del banchiere Roberto Calvi

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Roberto Calvi venne trovato morto in pieno centro a Londra, impiccato sotto il Blackfriars bridge, il ponte dei Frati Neri sul Tamigi, il 18 giugno 1982. Aveva alcune pietre nelle tasche, 7.500 sterline, le mani legate dietro la schiena e un passaporto italiano intestato a Gian Roberto Calvini. La notizia venne data in Italia durante i telegiornali della sera, che parlarono di suicidio. Quel pomeriggio la Nazionale italiana di calcio aveva giocato a Vigo, in Spagna, contro il Perù (finì 1-1): erano i mondiali del 1982, quelli che l’Italia avrebbe vinto tre settimane dopo.

Calvi era un banchiere molto famoso, e altrettanto discusso: lo chiamavano “il banchiere di Dio” per i suoi stretti rapporti con personaggi molto illustri del Vaticano. Quando morì era nei guai: guai finanziari e guai giudiziari, legati alla banca che presiedeva, il Banco Ambrosiano. La storia di quella banca e di Calvi è strettamente intrecciata alle vicende della loggia massonica P2 di Licio Gelli, che a sua volta compare in varie indagini sulle stragi commesse in Italia negli anni della strategia della tensione. E il nome di Calvi è legato anche a quello di loschi affaristi come Flavio Carboni e a quello di uomini vicini alla mafia, come Michele Sindona, che morì poi nel 1986 avvelenato da un caffè al cianuro nel carcere di Voghera, dove stava scontando la pena dell’ergastolo per aver ordinato l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, liquidatore della Banca Privata Italiana, di proprietà dello stesso Sindona.

Calvi era nato a Milano il 13 aprile 1920, suo padre lavorava come dirigente nella Banca Commerciale Italiana. Dopo il diploma in ragioneria, si iscrisse alla facoltà di Economia e Commercio dell’università Bocconi. In quegli anni fu anche dirigente politico: coordinò l’ufficio stampa e propaganda dei Gruppi universitari fascisti. Lasciò l’università durante la guerra, e combatté sul fronte russo con la cavalleria, come tenente dei Lancieri di Novara. Tornato in Italia, entrò nella banca dove lavorava il padre ma qualche anno dopo passò al Banco Ambrosiano dove divenne uomo di fiducia di Alessandro Canesi, dirigente che fu nominato prima direttore generale quindi presidente. Il Banco Ambrosiano era stato fondato nel 1896 dal frate francescano Giuseppe Tovini per finanziare le opere pie, ed era poi diventato una banca commerciale con stretti legami con lo IOR, l’Istituto per le Opere di Religione, la banca del Vaticano.

Nel 1971 Calvi divenne direttore generale del Banco Ambrosiano, nel 1974 vicepresidente e un anno dopo presidente. Iniziò, in quel ruolo, a intraprendere una serie di iniziative finanziarie ambiziose e rischiose. Si legò a Sindona, che aveva rapporti con la mafia italo-americana e che lo aiutò nella creazione di una serie di società off shore all’estero. Sindona gli fece anche conoscere Licio Gelli, “maestro venerabile” della loggia P2 a cui Calvi si iscrisse: il suo numero di tessera era il 519.

Grazie alle sue conoscenze, Calvi entrò anche nel consiglio d’amministrazione dell’università Bocconi, fino a diventarne vicepresidente. Il presidente allora era Giovanni Spadolini, segretario del Partito Repubblicano Italiano, ex ministro e presidente del Consiglio dal giugno 1981 al dicembre 1982, che non gradì assolutamente la sua nomina. Negli anni dal 1979 al 1982 il Banco Ambrosiano, attraverso due società controllate, Credito Varesino e Banca Cattolica del Veneto, fece numerose donazioni all’università.

Nel 1978 gli ispettori della Banca d’Italia avevano intanto iniziato a indagare sulle operazioni del Banco Ambrosiano. Calvi aveva costituito con l’arcivescovo Paul Marcinkus, presidente dello IOR e uomo di fiducia di Papa Giovanni Paolo II, una serie di società fantasma nei paradisi fiscali. Con il 16% delle quote, lo IOR divenne il principale azionista dell’Ambrosiano. In quegli anni somme molto ingenti entrarono e uscirono dalle casse della banca guidata da Calvi, attraverso una serie di triangolazioni con le varie società off shore e con il contributo della banca guidata da Marcinkus. In cambio, il Banco Ambrosiano finanziò associazioni politiche e religiose nell’Europa dell’Est in chiave anticomunista. Le inchieste giudiziarie scoprirono poi che attraverso le società situate nei paradisi fiscali veniva riciclato denaro di provenienza illecita. 

Paul Marcinkus (ANSA / ARCHIVIO / LI)

Il governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi e il direttore generale Mario Sarcinelli, che avevano ordinato l’ispezione al Banco Ambrosiano, furono indagati da due magistrati, Luciano Infelisi e Antonio Alibrandi, e Sarcinelli venne anche arrestato. L’accusa era quella di interesse privato in atti d’ufficio e favoreggiamento personale, per non aver trasmesso all’autorità giudiziaria le notizie contenute in un rapporto ispettivo sul Credito Industriale Sardo, che aveva finanziato il gruppo chimico SIR del finanziere Nino Rovelli, su cui era stata avviata un’indagine della magistratura.

L’indagine nei confronti di Baffi e Sarcinelli fu definita da Mario Draghi, presidente della Banca d’Italia dal 2006 al 2011, «un attacco intimidatorio all’autonomia della Banca Italia». Alibrandi era noto per le sue simpatie fasciste e suo figlio Alessandro era in quegli anni uno dei capi dei NAR, i Nuclei Armati Rivoluzionari guidati da Valerio Fioravanti: fu ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia il 5 dicembre 1981. 

Nel 1980 e nel 1981 il Banco Ambrosiano si trovò ad affrontare una crisi di liquidità. Ricevette finanziamenti dall’Eni per circa 150 milioni di dollari e poi, ancora dall’Eni, per altri 50 milioni di dollari, per ottenere i quali, come risultò da processi successivi, vennero pagate delle tangenti al Partito Socialista Italiano.

Nel 1981 Calvi, che nel 1974 era stato nominato Cavaliere del lavoro, acquistò il 40% della casa editrice Rizzoli, arrivando a controllare il gruppo che deteneva anche il Corriere della Sera. Passato da un capitale di 5 miliardi di lire nel 1972 a uno di 50 miliardi nel 1981, il Banco Ambrosiano quell’anno doveva raccogliere fra i suoi azionisti 240 miliardi di lire. Pochi giorni dopo l’operazione che portò al controllo del Corriere della Sera, la commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Sindona pubblicò gli elenchi della Loggia P2 sequestrati a Castiglion Fibocchi, in provincia di Arezzo, nella villa di Licio Gelli. In 34 buste sigillate era contenuta anche la documentazione relativa ai rapporti fra Calvi e lo stesso Gelli, compresa quella riferita all’acquisto del più importante quotidiano italiano. 

Calvi venne arrestato il 20 maggio 1981, accusato di violazione delle norme valutarie e processato in luglio insieme ad altri amministratori dell’Istituto di credito per esportazione illecita di capitali. Condannato a quattro anni, ottenne la libertà provvisoria e chiese quindi di rientrare a pieno titolo negli incarichi al vertice della banca. Per cercare di salvare il Banco Ambrosiano chiese aiuto allo IOR che però non intervenne. Calvi scrisse anche una lettera a Papa Giovanni Paolo II in cerca di aiuto.

Santità, sono stato io ad addossarmi il pesante fardello degli errori nonché delle colpe commesse dagli attuali e precedenti rappresentanti dello IOR, comprese le malefatte di Sindona[…]; sono stato io che, su preciso incarico dei Suoi autorevoli rappresentanti, ho disposto cospicui finanziamenti in favore di molti Paesi e associazioni politico-religiose dell’Est e dell’Ovest[…]; sono stato io in tutto il Centro-Sudamerica che ho coordinato la creazione di numerose entità bancarie, soprattutto allo scopo di contrastare la penetrazione e l’espandersi di ideologie filo marxiste; e sono io infine che oggi vengo tradito e abbandonato[…].

Il debito delle società off shore controllate dallo IOR nei confronti del Banco Ambrosiano era di 1,2 miliardi di dollari. Calvi allora si rivolse a un faccendiere, Flavio Carboni, legato al boss mafioso Pippo Calò e ad alcuni esponenti della banda della Magliana. Arrivarono nuovi soldi ma la situazione era ormai irrecuperabile. La guida della banca venne assunta dal vice presidente Roberto Rosone, che tra le prime iniziative prese quella di bloccare le linee di credito di Carboni. Il 27 aprile 1982 Rosone scampò a un attentato: in via Oldofredi, a Milano, venne avvicinato da un uomo con il viso coperto che tentò di sparargli, ma la pistola si inceppò. Rosone fuggì, l’uomo a quel punto riuscì a sparare e lo ferì alle gambe. Intanto una guardia giurata aveva estratto la pistola: sparò a sua volta all’attentatore colpendolo a morte. L’uomo ucciso fu identificato poi come Danilo Abbruciati, boss della banda della Magliana.

Poche settimane dopo Calvi decise di abbandonare segretamente l’Italia nonostante, in attesa del processo d’appello, non potesse farlo. Il 9 giugno 1982 andò a Roma dove incontrò Carboni, due giorni dopo fu a Venezia, quindi a Trieste da dove si spostò in Jugoslavia. Il 14 giugno incontrò di nuovo Carboni al confine tra Austria e Svizzera. Il 15 giugno partì infine dall’aeroporto di Innsbruck per Londra. Tre giorni dopo venne trovato morto. Il 17 giugno, gettandosi dal quarto piano della sede del Banco Ambrosiano, si era uccisa la sua segretaria, Teresa Graziella Corrocher.

In un primo tempo l’inchiesta inglese venne archiviata e come causa della morte fu indicato il suicidio. Una seconda inchiesta, sempre nel Regno Unito, terminò senza che si arrivasse di fatto a una conclusione: secondo gli investigatori, la morte di Calvi poteva essere avvenuta sia per omicidio sia per suicidio.

Anche in Italia la prima inchiesta archiviò la morte di Roberto Calvi come suicidio. Nel 1991 il collaboratore di giustizia ex mafioso Francesco Marino Mannoia sostenne che Calvi fosse stato strangolato da un mafioso, Francesco Di Carlo, su ordine di Pippo Calò. Secondo Mannoia, Calvi aveva ricevuto, attraverso Gelli e Calò, del denaro per conto dei corleonesi di Totò Riina. Nel 1996 Di Carlo divenne a sua volta collaboratore di giustizia, ma negò di essere l’assassino di Calvi anche se ammise che in realtà Calò gli aveva chiesto di occuparsi dell’operazione, che poi però era stata affidata a camorristi napoletani.

Un altro collaboratore di giustizia, questa volta della banda della Magliana, Antonio Mancini, disse ai magistrati che Calvi era stato ucciso su ordine di Calò e Carboni. Nel 1998 la salma di Calvi venne riesumata: i periti incaricati dal gip Otello Lupacchini esclusero l’ipotesi del suicidio. Nel 2003 un altro pentito di mafia, Nino Giuffrè, disse che Calvi era stato ucciso per volere della mafia, della massoneria e del Vaticano. 

Il processo a carico di Carboni e Calò si svolse nel 2005. Erano imputati anche Ernesto Diotallevi, esponente della banda della Magliana, Silvano Vittor, contrabbandiere che aveva aiutato Calvi a lasciare l’Italia, e la compagna di Carboni, Manuela Kleinszig. Il 6 giugno 2007 tutti gli imputati vennero assolti, come poi confermato in appello. La sentenza di primo grado stabilì però che «l’ipotesi del suicidio era da considerare assurda», e quella d’appello che «Calvi è stato ammazzato, non si è ucciso». Un altro filone d’inchiesta sui mandanti dell’omicidio, tra cui Gelli, venne archiviato nel 2017. 

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