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La scienza ci dice come e quanto lavare i vestiti per risparmiare energia e inquinare meno

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Nel 2015 Greg Foot, resident scientist della Bbc, ha spiegato i principi scientifici di cui sarebbe necessario tenere conto per lavare indumenti, lenzuola e asciugamani. Riassumendo il suo pensiero, ciò che sporcherebbe i vestiti non sono tanto gli agenti esterni quanto noi stessi. Una teoria che merita un approfondimento. Uno studio pubblicato su Environmental Science & Technology sostiene che ogni giorno perdiamo circa 500 milioni di cellule. Tutto materiale biologico che rimane attaccato per lo più a ciò che indossiamo.

Il test sui jeans


 

Rachel McQueen, professoressa dell’Università di Alberta (Canada) ha fatto indossare a un suo studente un paio di jeans per 15 mesi, pulendoli con un panno soltanto per rimuovere eventuali macchie, per poi testarne in laboratorio il livello di batteri e riscontrarne una quantità simile a quella di jeans indossati per tredici giorni. Con un’igiene personale e la sostituzione della biancheria intima quotidiana, gran parte dei batteri che si annidano nei vestiti può essere ridotta al minimo, limitando così i cattivi odori dovuti dall’acido propionico o dall’acido isovalerico, prodotti da batteri che si annidano regolarmente sui nostri corpi. Non soltanto, la professoressa McQueen, autrice di decine di ricerche sull’impatto dei batteri su vestiti e biancheria, giunge in più occasioni alla conclusione secondo cui i vestiti non andrebbero lavati cedendo alle logiche del periodo o delle volte che sono stati indossati ma a seconda degli odori che emanano. Inoltre, c’è un rapporto anche tra la qualità dei tessuti e la loro predisposizione ai cattivi odori: ritorna quindi la norma del “più spendi, meno spendi“, questa volta nella misura in cui capi di buona fattura necessitano di un minore numero di lavaggi.



Come lavare i capi secondo principi fisici?

Non è possibile stilare un calendario dei lavaggi, perché la ciclicità con cui lavare ciò che indossiamo e la biancheria per la casa che usiamo dipende anche dal nostro quotidiano. Chi fa un lavoro che impegna fisicamente tende a sudare di più e altrettanto vale per chi pratica sport. La biancheria intima va ovviamente cambiata ogni giorno, i batteri vi trovano infatti gli ambienti umidi che servono loro per proliferare e, questo atteggiamento che ci si attende essere quotidiano, si riflette a cascata su tutti gli altri indumenti, limitandone la necessità di essere lavati. Più che la quantità di lavaggi, assume un ruolo la loro qualità. È perfettibile la convinzione diffusa secondo la quale il risciacquo con acqua dolce è importante tanto quanto i detersivi usati, perché il risciacquo creerebbe gradienti chimici ed elettrolitici in grado di rimuovere a fondo lo sporco. La fisica dimostra infatti che, per rimuovere i batteri dai micro-pori dei tessuti, ci vorrebbe più tempo di quello che impiega una lavatrice a concludere un lavaggio.


 

È sempre la fisica a intervenire per perfezionare le tecniche di lavaggio, suggerendo l’uso di additivi (enzimi) e candeggina per i bucati a temperature inferiori ai 20° centigradi e raccomandando lavaggi a temperature superiori ai 40°, 60° per una migliore inattivazione dei batteri, soprattutto quelli con involucro che sono particolarmente sensibili ai detergenti.

Oltre a ciò, e qui insorgono i problemi più rilevanti, il bucato è svolto attraverso diverse fasi, dal prelavaggio alla centrifuga, passaggi che meriterebbero ognuno un trattamento specifico per annichilire i batteri e rimuovere gli odori, considerando che i due vanno di pari passo. A corredo di una migliore disinfezione del bucato si situa anche un’asciugatura prolungata, soprattutto se fatta mediante appositi macchinari, quelle asciugatrici che si trovano in commercio a partire da cifre abbordabili. Una corretta asciugatura permette di supplire almeno in parte alla necessità di lavare i capi ad alte temperature, con conseguenti risparmi in termini di acqua ed energia elettrica.

Il bucato tra cultura e psicologia

Esiste anche un’attitudine al bucato, un’usanza che risulta dal connubio tra cultura locale e psicologia. Uno studio congiunto tra il Center for Consumer Society Research dell’Università di Helsinki e l’Institute of Sociological Research dell’Università di Ginevra, incentrato soprattutto sull’uso più consapevole dell’energia, fa un’immersione anche nelle pratiche del lavaggio dei vestiti, deducendo che si tratta per lo più di questioni psicologico-culturali. In parole povere, i motivi per i quali ricorriamo a un’alta frequenza dell’uso della lavatrice, escluso i motivi ovvi, non avrebbero sempre a che vedere con l’effettiva necessità igienica dei capi e sarebbero frutto, invece, di un imprinting del tessuto sociale in cui viviamo. Siamo in stretto contatto con la società e presentarci puliti e profumati è d’obbligo e questo non ci aiuterebbe a sottrarci all’ingiustificata frequenza con cui ricorriamo alla lavatrice anche quando non necessario. Per sugellare questa lettura, lo studio ha seguito 73 famiglie finlandesi e svizzere durante quattro settimane dell’autunno 2018 stabilendo che modifiche sostanziali alla “psicologia del bucato” hanno un impatto più che sensibile sulle questioni ambientali e un impatto sostanzialmente nullo sulla vita (anche) sociale delle famiglie stesse.

I risultati dello studio

Prima del test durato quattro settimane, le famiglie finlandesi usavano la lavatrice in media 3,7 volte ogni settimana e quelle svizzere 2,9 volte. Dopo le quattro settimane di sensibilizzazione, le famiglie di entrambe le nazioni avevano ridotto il ricorso alla lavatrice mediamente di 1,3 volte a settimana. Ciò dimostra, almeno secondo il parere del gruppo di ricerca che ha condotto lo studio, che i motivi per cui usiamo la lavatrice con una certa frequenza sarebbero meccanici ma non sempre reali, non appartengono quindi al mondo dei sensi tant’è che, pure cambiando le proprie abitudini in materia di lavanderia, i partecipanti al test non hanno avvertito senso di disagio nell’indossare i vestiti lavati con minore frequenza né hanno avuto ricadute nei loro rapporti sociali. Lasciare più tempo i vestiti all’aria aperta, pulirli con un panno quando si macchiavano, indossare per più tempo gli abiti utilizzati per le mansioni squisitamente casalinghe usando un grembiule per svolgere quei compiti che espongono di più allo sporco (come, per esempio, pulire casa o cucinare) sono tutti accorgimenti che hanno coadiuvato le famiglie nel cambiare le proprie abitudini.

I consumi

Secondo l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) un nucleo famigliare di tre persone può dedicare al bucato fino all’8% dei consumi elettrici, che possono essere ridotti in generale con piccoli accorgimenti e, per quanto riguarda l’uso della lavatrice, assumendo una nuova cultura del lavaggio dei capi che indossiamo. Nel 2021 in Italia sono stati prodotti 319,9 TWh di energia elettrica, ossia quasi 320 miliardi di kilowattora. Il 59% di questa energia (circa 189 TWh) è stata prodotta da fonti non rinnovabili, tra le quali il gas che proprio in questo periodo sta raggiungendo prezzi insostenibili.

Usando i dati del 2019, il consumo medio energetico di una famiglia è stato di circa 2.700 kilowattora all’anno derivante da elettrodomestici di uso comune e sappiamo anche che, in Italia, ci sono circa 26 milioni di famiglie.

Abbiamo quindi elementi sufficienti per calcolare, in modo molto approssimativo, quale impatto può avere il ridurre i cicli di lavaggio anche soltanto del 10% ovvero, anche in questo caso in modo sommario, ridurre di una volta al mese l’uso della lavatrice (supponendo che una famiglia faccia in media 12 bucati al mese, circa 3 ogni settimana). Dei 2.700 kWh (kilowattora) consumati mediamente ogni anno da una famiglia, 216 kWh circa sono destinati al bucato (8%). Moltiplicandoli per i 26 milioni di famiglie si arriverebbe a stabilire che, in Italia, per lavare i panni vengono impiegati ogni anno 5,6 TWh di energia elettrica. Riducendo del 10% il ricorso alla lavatrice si risparmia più di mezzo TWh di energia elettrica, pari al 2% del consumo annuo nazionale. Poiché più della metà dell’energia elettrica è prodotta da fonti non rinnovabili, si può dedurre che questo risparmio coincida con poco più dell’1% dei consumi di gas che, nel nostro paese, consumiamo in ragione di 76,1 miliardi di metri cubi l’anno. Tutto ciò senza grossi impatti sulla nostra quotidianità, risparmiando sulle bollette, inquinando meno e persino facendo meno fatica.

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