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La pace si ottiene sconfiggendo chi fa le guerre

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Marcello Flores e Giovanni Gozzini

sabato 4 Giugno 2022







«Oggi la pace in Europa si difende solo sconfiggendo Putin con le armi e lasciandogli una via d’uscita onorevole che tuttavia apra al Cremlino un quadro di prospettiva radicalmente diverso dall’attuale. Non si tratta di cambiare gli uomini: oggi come oggi le alternative plausibili a Putin non sono delle migliori. Ma che Putin cambi la propria visione del futuro»










Palazzi distrutti intorno al monumento ai militari sovietici a Trostyanets, dopo che le forze ucraine hanno ripreso la città lasciata dall’iniziale invasione russa (Alexey Furman/Getty Images)

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Il difetto forse maggiore della cultura politica pacifista è di considerare la guerra con sussiego come un’attività di barbari selvaggi priva di ogni razionalità. Non è così. La storia ci insegna che è l’occupazione cui gli esseri umani si sono dedicati con maggiore ostinazione, e molti stati nazionali sono stati costruiti attraverso conflitti armati. È quindi un errore grave ridurre la guerra in Ucraina alla scelta sciagurata e ignorante di un uomo solo. Si tratta invece di una decisione strategica calcolata sulla base di una constatazione, di una ideologia identitaria e di almeno tre obiettivi.

La constatazione riguarda il tavolo della globalizzazione. Le carte che la Russia ha in mano sono risorse energetiche (petrolio e gas) in via di abbandono se non vogliamo bruciare il pianeta. Non possiede la potenza industriale della Cina, né le capacità scientifico-tecnologiche degli Stati Uniti (il vaccino Sputnik insegna). Rimangono le forze armate che rappresentano il grosso dell’investimento statale del Cremlino.

L’ideologia identitaria è quella, poco conosciuta e presa del tutto sottogamba in occidente, del Russkij Mir, del «mondo russo» inteso come progetto di egemonia politica, spirituale/culturale e territoriale al tempo stesso, che inglobi senza ripeterli i progetti imperiali della Russia zarista e del comunismo sovietico e unisca tutti i territori nei quali vivono, o vivevano, etnie russe, comprese le terre dove hanno vissuto ai tempi dei tempi, nella mitica e nascente «civiltà slava».  Che i suoi ideologi – Anatolij Fomenko, Aleksandr Dugin, Vladimir Medinsky – scrivano cose che ci fanno ridere dall’assurdità di quanto dicono non ci deve fare dimenticare di come siano amati e ascoltati da Putin per primo, proprio per l’intreccio di complottismo, esoterismo e ultranazionalismo che producono e trasmettono nei media e nella ossessiva propaganda del regime. In essa, a più riprese, sono presenti tracce non indifferenti di una visione di supremazia razziale («i russi sono geneticamente straordinari» ha detto Putin nel dicembre 2014, dopo l’annessione della Crimea) e di lebensraum russo, tutti aspetti che non sembrano interessare, e ancor meno preoccupare, coloro che ritengono che la pace a ogni costo (anche o forse soprattutto quello della sconfitta dell’Ucraina e della perdita di una buona parte del suo territorio e della sua popolazione) sia l’unico scopo che dovremmo perseguire.

I tre obiettivi della spedizione militare in Ucraina hanno un unico nemico: l’Unione Europea. La Russia ha perso la capacità di confronto per l’egemonia globale con gli Stati Uniti che era legata all’ideologia comunista: non ha una forza di attrazione. Ma può usare la leva militare per dividere e indebolire l’Unione Europea e allargare la propria area di influenza. Il primo obiettivo è di scaricare sull’Europa i costi della ricostruzione di una Ucraina che Putin si sta applicando a distruggere il più possibile. In una fase storica di annunziata prosperità occidentale come quella post-1945, il piano Marshall era possibile e anche vantaggioso per l’Occidente, ma oggi è molto più complicato e foriero di dissidi tra paesi frugali e non, senza contare le difficoltà degli Stati Uniti a rivestire un ruolo internazionale. Il secondo obiettivo è di aprire una crisi di prezzi delle materie prime alimentari con lo scopo di destabilizzare i paesi africani importatori di grano (quasi tutti) e di alimentare nuove ondate immigratorie destinate innanzitutto a sbarcare in Europa. Il terzo obiettivo è di mantenere una zona di guerra fredda al confine orientale che obblighi i paesi europei a dirottare una parte ingente delle risorse nelle spese militari. E questo è un punto di vista che trova sostenitori, per ragioni diverse, anche negli Stati Uniti e in Europa, di cui si dovrà discutere in modo più approfondito. Ragioni sia esterne che interne spingono quindi Putin a prolungare ad oltranza lo stato di guerra. Non ci si stupisca delle difficoltà dell’armata russa.

Il disegno di Putin nasce anche dalla amara constatazione (simile a quella provata a suo tempo da Gorbačëv) di quanto sia difficile riformare la Russia in senso moderno, limitarne i livelli di corruzione, aprire i canali di una libera mobilitazione politica che non riproduca fedeltà nazionaliste del passato. Se non puoi sconfiggere gli oligarchi, tanto vale allearsi con loro. Se non puoi sconfiggere i clan ceceni, tanto vale allearsi col più forte di loro. La quota di proiettili inesplosi, le falle nelle comunicazioni interne che hanno permesso agli ucraini l’imboscata all’aeroporto di Kiev ai danni dei reparti speciali russi, l’impreparazione dei giovani soldati di leva mandati allo sbaraglio fanno parte dello stato più generale di caos e arretratezza della società russa. Ma l’esercito di Mosca ha sempre combattuto così: disastri iniziali, correzioni di rotta, guerra di attrito e logoramento senza risparmio di mezzi e di vite (pensiamo all’attacco nazista del 1941 e a quanto ne seguì).

Rispetto a un quadro di tale genere, l’invocazione della pace lascia il tempo che trova. La Russia ha già ampiamente chiarito che le ragioni umanitarie non hanno per lei alcun valore: non per cattiveria ma perché le ragioni che spingono alla guerra sono considerate ineludibili e stringenti, sostanzialmente prive di alternative. Ma il punto di vista di Mosca è stranamente ignorato da quasi tutti i pacifisti. Non è un caso che i cultori di una pace generica e astratta facciano riferimento, di volta in volta, a Kissinger o a Papa Francesco come se dicessero le stesse cose, che le loro stesse parole vengano ripetute da populisti alla Salvini o alla Conte e che si affannino a ripeterle intellettuali del calibro di Orsini e Cacciari, Canfora e Santoro, Di Cesare e Fusaro.

La posizione del Cremlino, ostile a ogni possibile trattativa fin quando i suoi mai esplicitati obiettivi verranno raggiunti militarmente, autorizza la previsione che in caso di vittoria (non solo quella comoda, modellata su Praga 1968 o Budapest 1956 erroneamente immaginata da Putin, ma anche quella logorante che sta avvenendo) la Russia si ritenga autorizzata ad andare avanti sulla strada della ricostruzione di un est Europa modello patto di Varsavia. Oggi la pace in Europa si difende solo sconfiggendo Putin con le armi e lasciandogli una via d’uscita onorevole che tuttavia apra al Cremlino un quadro di prospettiva radicalmente diverso dall’attuale. Non si tratta di cambiare gli uomini: oggi come oggi le alternative plausibili a Putin non sono delle migliori. Ma che Putin cambi la propria visione del futuro. Ci sono esempi storici (come l’OPEC) che mostrano come un esercizio cooperativo e non conflittuale del monopolio delle risorse naturali possa costruire scenari positivi e offrire una conflittualità «di mercato» che può riuscire a evitare un conflitto armato.

Impedire alla Russia di vincere militarmente la guerra e costringerla, di conseguenza, a una trattativa in cui sarà costretta a rimettere in discussione il proprio progetto di Russkij Mir, accettando di confrontarsi – con l’Europa, gli Stati Uniti, la Cina, il mondo intero – per un nuovo equilibrio che possa riprendere, in modo diverso e più utile a tutti, compresa la sopravvivenza del pianeta, il processo di globalizzazione che l’aggressione in Ucraina ha messo in crisi.


Marcello Flores e Giovanni Gozzini


Marcello Flores ha insegnato Storia comparata e Storia dei diritti umani all’Università di Siena, dove ha diretto il Master europeo in Human Rights and Genocide Studies, e all’Università di Trieste tra il 1975 e il 1992.
Giovanni Gozzini insegna Storia della globalizzazione e New Media and Globalization all’Università di Siena.
Insieme hanno scritto Il ’68. Un anno spartiacque (il Mulino, 2018) e Il vento della rivoluzione. La nascita del Partito comunista italiano, (Laterza 2021).







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