Joshua Norton, l’imperatore vagabondo degli Stati Uniti
Il pomeriggio del 17 settembre 1859 il direttore del San Francisco Bulletin, George Kenyon Fitch, si trovava alla scrivania del suo ufficio. Rifletteva sulla forma da dare all’edizione serale del suo giornale, già densa di notizie perlopiù negative e allarmanti: era morto un senatore, il clima politico era pesante e la schiavitù divideva gli Stati Uniti e li stava trascinando verso la guerra. Mentre Fitch pensava a queste cose, nell’ufficio entrò un uomo assai strano. Aveva un’uniforme militare antiquata e troppo grande per lui, consumata e sporca. Lui stesso non aveva l’aria pulitissima, portava una barba ispida e riccia e aveva il volto scavato. Nonostante l’aspetto trasandato però aveva un portamento dignitoso e un certo contegno.
L’uomo consegnò a Fitch un foglio, chiedendogli di pubblicare il contenuto sul giornale del giorno dopo. Sembrava ritenere la cosa della massima importanza, disse a Fitch che ne andava del destino della nazione, poi se ne andò. Nel foglio c’era scritto:
Dietro perentoria richiesta e desiderio di una larga maggioranza di questi Stati Uniti, io, Joshua Norton, un tempo cittadino di Algoa Bay, Capo di Buona Speranza, e oggi e per gli ultimi 9 anni e 10 mesi cittadino di San Francisco, California, dichiaro e proclamo me stesso Imperatore di questi Stati Uniti; e in virtù dell’autorità in tal modo acquisita, con la presente ordino ai rappresentati dei diversi Stati dell’Unione di riunirsi in assemblea presso il Music Hall di questa città, in data 1° febbraio prossimo venturo, e lì procedere alla modifica delle leggi dell’Unione esistenti al fine di correggere i mali sotto i quali questa nazione si trova a operare, e in tal modo ripristinare la sua fiducia a sussistere, sia in patria che all’estero, in piena stabilità e integrità.
Norton I, Imperatore degli Stati Uniti, 17 settembre 1859.
Fitch pensò che era una gran bella storia da pubblicare per far ridere i suoi lettori e alleggerire il tono del giornale. E così facendo avviò il mito di Norton I, che per anni si credette legittimo imperatore degli Stati Uniti, finendo per diventare una specie di rispettata mascotte di San Francisco, al punto da generare un esteso moto di commozione collettiva quando morì. La storia di Joshua Norton negli anni è stata raccontata da giornali e libri: in Italia l’ha fatto di recente lo scrittore Enrico Buonanno nel libro L’imperatore d’America. Storia favolosa del vagabondo che si fece re, pubblicato da UTET.
Nella sua vita precedente, prima che si proclamasse imperatore, Norton era stato un facoltoso imprenditore. Era nato in Inghilterra nel 1818 da genitori ebrei, ma presto la famiglia si trasferì in Sudafrica, dove suo padre iniziò una fortunata attività nel commercio marittimo. Nel 1846 Joshua Norton si trasferì negli Stati Uniti con una discreta somma di denaro, forse un’eredità. Si sa che rimase a Boston per circa tre anni, poi si mosse verso San Francisco.
In quegli anni la costa occidentale degli Stati Uniti stava attraversando un’espansione economica quasi frenetica. San Francisco era meta di una gran quantità di persone in cerca di fortuna, attratte dalla scoperta casuale di un giacimento d’oro lungo il fiume Sacramento che diede origine al celebre fenomeno della “corsa all’oro”. Criminali, avventurieri, ricchi imprenditori e altre persone di ogni genere fecero crescere la città portandola da poco più di mille abitanti a 25mila.
Norton fu tra quelli che a San Francisco la fortuna la trovarono. In pochi anni costruì un’attività commerciale estremamente fiorente che lo rese ricchissimo, nell’ordine probabilmente di centinaia di migliaia di dollari, ossia milioni di dollari di oggi. Con una tale disponibilità di denaro, ovviamente, Norton poté inserirsi nell’alta società dell’epoca, frequentare i club giusti, viaggiare in prima classe e alloggiare nei migliori hotel.
Poi, nel 1852, Norton fece un pessimo affare. Qualcuno gli suggerì che una grave carestia in Cina avrebbe alzato a dismisura il prezzo del riso, perciò Norton acquistò una partita di riso dal Perù convinto che poi avrebbe potuto ottenerci guadagni altissimi. Tuttavia le navi provenienti dalla Cina continuarono a portare riso, e di qualità migliore della partita acquistata da Norton. Il prezzo della materia prima scese arrivando a pochi centesimi al chilo, e Norton perse l’investimento iniziale, che era stato di circa 25mila dollari.
Inizialmente la sua attività commerciale non ne risentì troppo, ma Norton tentò di non rispettare gli impegni economici presi, perché si sentiva raggirato da chi l’aveva mal consigliato. Si impelagò in una lunga e costosa battaglia legale che alla fine, nel 1856, lo obbligò a dichiarare bancarotta.
Le tracce su cosa fece negli anni successivi sono ben poche, ma qualcuno sospetta che gradualmente, a un certo punto, Norton abbia sviluppato una forma di depressione. Per un po’ sparì dalla circolazione, poi riemerse con la divisa lisa e un cappello militare scolorito con delle piume attaccate, quella che negli anni successivi diventò di fatto la sua uniforme.
Il proclama pubblicato sul San Francisco Bulletin nel 1859 fece parlare tutta la città, le copie del giornale andarono esaurite. Un po’ sinceramente affascinate dal personaggio, un po’ per divertirsi e deriderlo, le persone furono attratte da questa storia, e del resto, come racconta Enrico Buonanno nel suo libro, all’epoca dare risalto a gente stramba era un’usanza assai praticata dai giornali. «Pubblicare dei pezzi di costume che ironizzavano sullo stravagante di turno era una moda e una soluzione un po’ facile per vendere copie e rallegrare il giornale» scrive Buonanno. «I lettori, poi, i matti li adoravano […]. Li conoscevano a uno a uno, li salutavano e li fermavano per chiacchierarci per strada. Tutti i diversi e gli spostati in fondo facevano tendenza, e riderci su era normale».
Norton era senza dubbio uno di questi, «un matto», ma allo stesso tempo era diverso. Nei suoi confronti i concittadini provavano una pietà e, in fondo, un rispetto inconsueti per qualsiasi altro tipo strambo di qualsiasi altra città. Probabilmente tutto ciò era dovuto ai modi educati e seri che lo caratterizzavano, ma anche alle idee che sosteneva e al modo in cui riusciva a rendere credibili i suoi proclami imperiali, che puntualmente venivano disattesi, probabilmente con suo sommo sconforto. Tuttavia erano ben scritti, con un linguaggio anche competente, i riferimenti e i nomi sempre giusti, e contenevano idee vaghe e generiche ma tutto sommato condivisibili per la gente che ridacchiava di lui leggendo i giornali. Non erano insomma testi incongrui, non sembravano scritti da una persona disturbata, se non per il fatto che alludevano a una realtà fuori dal mondo.
Nonostante il suo desiderio di instaurare una monarchia assoluta, le idee di Norton appaiono piuttosto progressiste per l’epoca. Una volta ordinò che gli afroamericani venissero accolti nelle scuole pubbliche e fosse permesso loro di guidare, ma l’inclusione e la fine della segregazione sarebbero avvenute solo nel secolo successivo. Un’altra volta intervenne in difesa degli immigrati cinesi, che all’epoca subivano varie ingiustizie: in un proclama ordinò che fosse permesso alle persone cinesi di testimoniare in tribunale. Norton diceva di essere un sostenitore del diritto di voto per le donne e fece proclami anche per tutelare i diritti degli indiani americani.
Dopo il primo proclama ne fece un altro in cui scioglieva la Repubblica e annullava tutte le leggi emanate dal Congresso. Tuttavia, com’era ovvio, il Congresso resto, incurante dell’imperatore Norton I. Fece proclami per annunciare adunate e incontri, ma poi le sedi di queste adunate e incontri rimanevano chiuse o vuote.
Norton andò avanti più di vent’anni nella convinzione di essere imperatore, vivendo nel frattempo perlopiù per strada e in estrema povertà. Se entrava in un locale o in un ristorante, tendenzialmente i gestori gli offrivano qualcosa da bere o da mangiare. Quando poteva alloggiava in saloon e pensioni in giro per la città. Dormiva soprattutto in una stanza all’Eureka Lodgings, una pensione modesta di tre piani dove affittava una camera minuscola, scarsamente arredata, senza armadio, con un divano sfondato, un lavandino e una brandina.
Una volta, a San Francisco, Norton incontrò per caso un conoscente della sua vita precedente, il sarto ebreo Nathan Peiser, che aveva avuto un passato da marinaio. Peiser era entrato all’Empire Lodging House per bere qualcosa e parlando con il barista scoprì che in quello stesso posto, un comunissimo saloon, alloggiava «Sua Maestà l’imperatore Norton I». Peiser ricordava di aver conosciuto un Norton, ma certamente non era un imperatore. In quel momento scese Norton e Peiser lo riconobbe: era lo stesso di un tempo, eppure molto diverso.
I due si raccontarono un po’ della loro vita in una conversazione apparentemente normale, però a un certo punto Peiser non riuscì a trattenersi dal chiedere cosa ci facesse in divisa e con il cappello. La risposta è contenuta in un’intervista che Peiser diede anni dopo, riportata da Buonanno nel suo libro:
Mi guardò intensamente negli occhi e, quasi sussurrando, mi impose di non rivelare mai a nessuno ciò che mi avrebbe confidato […]. Pensai che fosse strano ma, essendo interessato, glielo promisi prontamente. Il mio vecchio amico allora mi confessò di non essere figlio del signor Norton di Città del Capo, bensì un principe, erede del trono di Francia. Disse che era stato mandato a Città del Capo per metterlo al riparo dagli assassini; che era stato adottato dal signor Norton e che aveva mantenuto il suo nome come segno dell’amore che nutriva nei suoi confronti; che aveva assunto il titolo di imperatore, avendone pieno diritto; che quell’uniforme gli era stata regalata dalla regina Vittoria; e che tutte le persone, sia qui che in Messico, erano suoi sudditi. Io lo fissai per un momento, poi gli dissi che pensavo che fosse pazzo; al che mi rispose: «E così pensano tanti altri».
Norton quindi era convinto di essere imparentato con i Borbone di Francia, e che la cosa non fosse nota solo per via di una cospirazione nei suoi confronti. E millantava una conoscenza con la regina Vittoria, a cui peraltro mandò moltissime lettere per convincerla a sposarsi con lui e rafforzare i rispettivi troni. La regina non rispose mai.
Tra le tante storie più o meno leggendarie che circondano Norton ce n’è una particolarmente notevole. Riguarda un comizio di Denis Kearney, un agitatore politico che fomentava il razzismo contro gli immigrati, in particolare quelli cinesi che in quegli anni arrivavano in California in gran quantità. Secondo uno schema classico, Kearney sosteneva che i cinesi rubassero il lavoro alla gente del posto e fomentava i suoi sostenitori spingendoli a compiere spedizioni punitive piuttosto violente e sanguinose nella Chinatown locale. A un incontro in cui Kearney stava appunto sobillando un gruppo numeroso di suoi sostenitori si presentò Norton, che come abbiamo visto sui cinesi la pensava in maniera molto diversa.
Joshua Norton–born #OTD 1818–disgruntled by the legal & political structures of the USA, proclaimed himself ‘Emperor of these United States’ in 1859. Though some considered him insane or eccentric, the citizens of San Francisco celebrated his regal presence & proclamations. pic.twitter.com/1Qne6a3PUJ
— Jane Hoodless (@JaneHoodless) February 4, 2021
Esistono varie versioni di quello che successe quel giorno: secondo resoconti scritti decenni dopo, la sola pacifica e solenne presenza di Norton disperse la folla. Un’altra versione dice che Norton salì sul palco e recitò il Padre Nostro, neutralizzando la violenza di Kearney e dei suoi sostenitori.
Come scrive Buonanno, però, i giornali dell’epoca danno una versione dei fatti molto diversa e più credibile, ma per certi versi non meno edificante. Norton con tutta probabilità andò al comizio, ma non fu fatto salire sul palco. Salì invece su una panchina, per ordinare – in qualità di imperatore – alla folla e a Kearney di andarsene. Prima fu schernito e la folla rise di lui, poi Kearney ordinò che venisse cacciato. «Norton non era un capopopolo, eppure decise di presentarsi da solo a un comizio violento e particolarmente affollato» scrive Buonanno. «Decise di andare nel bel mezzo di una folla fatta di gente che minacciava di buttare a mare i bambini e che poco tempo prima aveva lasciato dietro di sé una scia di distruzione e sangue. E, ancora da solo, fece qualcosa di inaudito: interruppe il discorso del leader Kearney nel momento in cui quest’ultimo era circondato da suoi sostenitori».
«Norton stava ricordando a Kearney che non comandava un bel nulla. E che non rappresentava quella città e quell’America che sosteneva di incarnare. Glielo diceva uno straccione che non aveva paura né di un politico, né di una folla di razzisti».
Quando morì, Norton era ormai parte del paesaggio urbano di San Francisco. La gente, funzionari di ogni ordine e grado e forze di polizia lo salutavano per strada e perlopiù, a loro modo, lo trattavano con rispetto. Ai suoi funerali andarono diecimila persone che formarono una coda lunga tre chilometri dietro alla bara per rendergli omaggio.
Probabilmente per l’ottima stampa di cui aveva sempre goduto, la notizia della morte ebbe un impressionante risalto sui giornali. Venne data con grandi titoli su tutti i maggiori quotidiani del paese, non solo su quelli di San Francisco. Il Daily Alta California titolò “Un trono vacante”; il San Francisco Chronicle scrisse solennemente in francese “Le roi est mort”; diedero la notizia giornali di Cleveland, Philadelphia, persino il New York Times. L’Enquirer di Cincinnati lo definì «un imperatore senza nemici, un re senza regno».