Il ragazzo che si è ucciso a San Vittore non doveva essere in carcere

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Nelle ultime settimane due giovani uomini detenuti nel carcere milanese di San Vittore si sono uccisi: Abou El Mati, italiano di origine egiziana, aveva 24 anni; Giacomo Trimarco ne aveva 21, e in carcere non doveva esserci. Già 15 giorni prima aveva tentato il suicidio e da otto mesi era stato destinato a una Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), strutture che dal 2014 sono progressivamente subentrate agli ospedali psichiatrici giudiziari.

Il problema è che le Rems sono poche (36) e i posti disponibili sono meno di quelli di cui ci sarebbe bisogno. Dovrebbero ospitare le persone che non sono giudicabili nei processi per i reati che hanno commesso perché ritenute incapaci di intendere e di volere, ma che al tempo stesso vengono giudicate socialmente pericolose. Spesso, non essendoci posto in una Rems, queste persone vengono portate dove non dovrebbero, e cioè in un istituto penitenziario. Alle Rems vengono anche indirizzate persone non giudicate totalmente incapaci di intendere e di volere, ma il cui stato di salute si aggrava durante la detenzione.

I genitori di Giacomo Trimarco, che si è ucciso con un oggetto a disposizione dei detenuti per cucinare, hanno parlato con il Corriere della Sera di «detenzione illegale». Loro figlio doveva essere in una struttura di cura: «Se servirà ad altri ragazzi, adiremo a vie legali». Trimarco, che aveva una diagnosi di “disturbo borderline di personalità a basso funzionamento”, incompatibile appunto con il carcere, era stato arrestato nell’agosto del 2021 per il furto di un telefonino. La disposizione di trasferirlo in una Rems era stata data a ottobre eppure ancora il 31 maggio, giorno del suicidio, non era stata trovata una collocazione disponibile. I giudici non hanno il potere di ordinare l’ingresso in una delle Residenze, che hanno per regolamento un numero di posti limitato.

Trimarco non era stato giudicato totalmente incapace di intendere e di volere, ma solo parzialmente. Avrebbe dovuto essere curato o in una struttura esterna al carcere oppure all’interno del carcere stesso. Maria Gorlani, che ha attivato la rete Ci siamo anche noi, dedicata proprio alle famiglie con ragazzi che hanno disturbi borderline di personalità a basso funzionamento, spiega che «Giacomo Trimarco aveva avuto una condanna quindi doveva essere detenuto in una struttura alternativa al carcere oppure curato nel carcere stesso. Cosa che non è avvenuta, per questo il giudice aveva deciso l’ingresso in una Rems anche se il suo posto non avrebbe dovuto essere quello».

Il figlio di Gorlani ha lo stesso disturbo psichico, e 17 procedimenti penali pendenti: «Mio figlio non riesce a controllare le proprie emozioni, è accaduto per esempio che durante una crisi abbia distrutto una fila di auto. Io non chiedo che il reato venga ignorato, non pretendo che non venga condannato, così come non lo pretendeva la mamma di Giacomo Trimarco. Chiedo però che venga curato. Cosa che non avviene: è stato affidato a un Cps della Lombardia, cioè un Centro psico-sociale, che però non è in grado di fare nulla. Il giudice si trova così praticamente costretto a mandarlo in carcere, perché comunque mio figlio è giudicato “socialmente pericoloso”. Dovrebbe essere curato nell’istituto di pena, ma sappiamo già che questo non accadrà». 

Il problema della psichiatria in carcere è che gli psichiatri sono pochi a fronte di un numero molto alto di persone con disturbi. Dice ancora Gorlani: «Gli psichiatri devono occuparsi di moltissimi casi, spesso si tratta di piccoli disturbi e così per forza di cose vengono trascurati i disturbi più gravi. Si ricorre così agli psicofarmaci, somministrati a pioggia. I genitori di Giacomo Trimarco hanno nominato un perito che assisterà all’autopsia del figlio per capire se al ragazzo fossero state somministrate benzodiazepine che nel caso del disturbo borderline di personalità possono essere molto dannose». Secondo i genitori di Trimarco «se i servizi di salute mentale facessero il loro dovere, questi ragazzi al carcere non arriverebbero neanche. Non sono criminali. Per le loro condizioni psichiche non sarebbero neanche in grado di progettare reati».

Ornella Favero, coordinatrice del sito specializzato Ristretti Orizzonti, dice che «purtroppo il disagio psichico nelle carceri è in aumento e le strutture continuano a essere carenti. Sia le Rems sia quelle interne al carcere». La Corte europea per i diritti dell’uomo ha più volte intimato all’Italia di mettersi in regola, ma per ora non è stato fatto. Secondo dati del Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, i detenuti in attesa di entrare in una Rems sono 750, il tempo medio di attesa è di 304 giorni ma ci sono regioni come Puglia, Campania, Calabria, Lazio, Sicilia dove arriva a 458 giorni.

L’avvocata Antonella Calcaterra, dell’Osservatorio carcere e territorio, dice che «le Rems hanno lunghe liste di attesa e l’intervento psichiatrico in carcere è totalmente insufficiente. I servizi territoriali per la salute mentale non riescono a garantire un intervento adeguato e la continuità terapeutica». Il timore espresso da Calcaterra è che senza un potenziamento degli interventi all’interno degli istituti, con una maggiore presenza di psicologi e psichiatri, non sarà possibile evitare altri casi come quello dei due giovani che si sono uccisi nelle ultime settimane a San Vittore.

La riforma con cui venne stabilita la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari fu inserita nel decreto legge del 2011 noto con il nome di “svuotacarceri”. Gli ultimi due internati per “vizio di mente” uscirono dall’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) nella primavera del 2017. Alla loro chiusura doveva corrispondere la contemporanea apertura delle Rems, su base regionale, a vocazione riabilitativa e gestita esclusivamente da personale sanitario. Doveva anche esserci un potenziamento delle strutture di cura all’interno delle carceri. 

Nell’antico e ancora in uso gergo carcerario le persone affette da patologie psichiatriche si dividono in due gruppi: i “folli rei” e i “rei folli”. I primi sono le persone incapaci di intendere e di volere ma socialmente pericolose e dunque destinate da subito alle Rems. I secondi sono coloro il cui disturbo si aggrava o insorge dopo l’ingresso in carcere. Per loro, come spiega l’associazione Antigone, «devono essere trovati gli strumenti di cura esclusivamente all’interno del sistema penitenziario». Sono così state create le Articolazioni per la tutela della salute mentale che sono sezioni a gestione prevalentemente sanitaria, concentrate in pochi istituti, almeno uno per regione, con un compito difficilissimo: curare il disagio psichico in un luogo che di per sé è destinato ad aumentare quel disagio. Le sezioni Atsm oggi attive in Italia sono concentrate in 32 istituti penitenziari e sono in tutto 34 (29 maschili, 5 femminili). Vi sono ospitati 261 uomini e 21 donne, dunque meno di 300 persone in totale.

Per quanto riguarda le Rems è stato fissato per legge un limite massimo di venti posti: in pratica c’è un numero chiuso. È un principio che evita il sovraffollamento, ma dall’altra parte però tante persone che dovrebbero trovare posto in una Rems non lo ottengono. Scrive ancora l’osservatorio di Antigone: «L’idea che un ordine legittimamente posto dall’autorità non venga eseguito, o meglio non possa essere eseguito per mancanza di posti, è una novità assoluta nel campo dell’esecuzione penale. Nel contesto italiano, nessun istituto penitenziario si rifiuterebbe di ospitare una persona destinataria di un ordine di carcerazione perché è stata raggiunta la capienza massima. Nel microcosmo Rems queste “impossibilità” rappresentate dalla direzione sanitaria all’autorità giudiziaria sono invece prassi quotidiana».

La Corte costituzionale si è espressa nel gennaio di quest’anno dicendo che serve una legge per superare le criticità. Ha scritto la Corte in un documento che è necessario «il potenziamento e la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di Rems sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività». 

Dove chiedere aiuto


Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico Italia allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.


Puoi anche chiamare i Samaritans al numero verde gratuito 800 86 00 22 da telefono fisso o al numero 06 77208977 da cellulare, tutti i giorni dalle 13 alle 22.

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