“Il pm ha mentito sul Dna”. La denuncia di Bossetti sull’omicididio di Yara
Non si dà per vinto Massimo Bossetti, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, la 13enne di Brembate (Bergamo) ritrovata senza vita nelle campagne di Chignolo d’Isola il 26 novembre 2010. L’ex muratore di Malpello, difeso dall’avvocato Claudio Salvagni, punta il dito contro la pm Letizia Ruggeri che, ai tempi del procedimento penale, ordinò lo spostamento delle 54 provette contenti la traccia biologica mista della vittima e del carnefice dall’ospedale San Raffaele di Milano all’ufficio Corpi di reato del tribunale di Bergamo. Secondo i consulenti di Bossetti quel cambio di destinazione potrebbe aver danneggiato il Dna vanificando ogni tentativo di analisi. Da qui, la denuncia contro la pubblica accusa: “I campioni biologici dovevano essere conservati al freddo, – tuonano i consulenti del 51enne – per evitarne lo scongelamento e il conseguente deterioramento“.
“Ignoto Uno” e le 54 provette
La colpevolezza di Massimo Bossetti fu dimostrata dalla sovrapponibilità del Dna nucleare con quello di “Ignoto Uno”, rilevato sugli indumenti intimi di Yara e ritenuto dall’accusa l’unico riconducibile all’assassino, oltre che per la posizione, perché riscontrato nella zona colpita da arma da taglio sul corpo della giovane vittima. Gli avvocati del 51enne hanno sempre sostenuto, invece, che il Dna mitocondriale minoritario appartenesse a un altro individuo, definito per convenzione “Ignoto 2”. Per questo motivo, a più riprese, i legali Salvagni e Camporini hanno chiesto una revisione del processo puntando ai residui della traccia 31G 20 ritenuta la “prova regina” nel corso del procedimento. Si tratta di 54 provette che, fin dai tempi del processo, sono state terreno di scontro tra l’accusa e la difesa. A un anno dalla condanna definitiva dell’ex muratore, Il giorno 26 novembre 2019, l’avvocato Salvagni aveva richiesto l’accesso a quei campioni di Dna per poterli esamiare. L’indomani dell’autorizzazione, però, aveva scoperto che le provette erano state spostate dal frigorifero del San Raffaele, dove erano conservate a 80 gradi sottozero, all’ufficio Corpi di reato del tribunale di Bergamo. Come ben ricorda l’Adnkronos, i campioni erano stati consegnati al tribunale bergamasco “12 giorni dopo” aver lasciato l’ospedale milanese. Nel mentre, vi era poi stato un “inusuale dietrofront” sulla possibilità di visionare i reperti da parte della difesa. A quel punto, i legali di Bossetti si erano rivolti alla procura di Venezia – competente suo magistrati di Bergamo – affinché indagasse sulla corretta conservazione delle tracce biologiche ritrovate sui vestiti di Yara (i leggins e gli slip). I magistrati veneziani avevano respinto le accuse di “frode e depistaggio processuale” archiviando la posizione della funzionaria responsabile dell’ufficio Corpi di reati e del presidente della prima sezione penale del tribunale di Bergamo.
L’accusa contro il pm
Nonostante l’archiviazione, Bossetti e i suoi legali non si sono arresi sollecitando ulteriori indagini con una denuncia nei confronti della pubblica accusa, il pm Letizia Ruggeri sostenendo che “i 54 campioni erano idonei per nuove analisi“, che “le tecniche di oggi avrebbero risolto le gravi anomalie” e “i campioni biologici dovevano essere conservati al freddo, per evitarne lo scongelamento e il conseguente deterioramento“. Sentita il 10 marzo 2021, il pm è stata informata dal procuratore vicario di Venezia che il professore Casari e il colonnello Giampietro Lago, a capo del Ris del Parma, gli abbiano riferito che l’esame “era ripetibile e che c’era del Dna sufficiente – scrive Adnkronos – per poter effettuare una nuova comparazione”. “Ma assolutamente no, ma abbiamo tutto un processo in cui…– ha dichiarato il pubblico ministero Letizia Ruggeri – Ho tutti i verbali del processo in cui è emersa una cosa completamente diversa. Ma…cioè, sono anche abbastanza meravigliata“. “Peraltro, cioè, su quel Dna la parola fine l’ha messa la Cassazione – ha aggiunto -. La parte residuale che era rimasta in quelle 54 provette non era che io sappia, che sia emerso dal processo, dalle indagini preliminari, da quello che mi ha detto anche…mi hanno detto tutti i consulenti, era che sì certo, qualcosa magari si tira fuori, ma…ma non…ma non con questa certezza, in questi termini con cui mi viene prospettato adesso, nel modo più assoluto“.
Quanto al Dna di Bossetti il pm ha poi precisato: “A quanto ne so io, perché me l’hanno detto, perché io non sono un tecnico, (…) per quanto ne so io con quel pochissimo…sostanza che era rimasta lì dentro, ormai ammuffita, nelle parole di Casari, ha detto che erano quasi tutte…il 3% di Dna umano quasi tutte muffe, tanto è vero che l’indagine che gli avevo incaricato io di fare non l’ha potuta fare per la qualità scadente del materiale. Quindi io so che era un materiale assolutamente…cioè i rimasugli e assolutamente scadente, inidoneo per qualsiasi altra comparazione e ripetizione di esame. Cioè il Dna di Bossetti, così bello, così limpido, di cui abbiamo parlato per tutte queste udienze, così inequivocabile, da quei reperti non verrà mai più fuori. Questo è quello che loro hanno detto a me. Per cui rimango veramente sorpresa“. Secondo Massimo Bossetti, le “false affermazioni” del pm avrebbero “condizionato” il processo. Per questo motivo ora chiede al gip di Venezia di indagare Letizia Ruggeri, in concorso con Giovanni Petillo, per “frode processuale e distruzione dolosa dei reperti“. Accuse pesantissime ma che potrebbero spianare la strada ai legali del 51enne per formulare una nuova richiesta di revisione del processo.