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Il geocaching c’è ma non si vede

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Il geocaching è una particolare caccia al tesoro in cui si cercano scatole, contenitori o oggetti di varie dimensioni sparsi in giro per il mondo. A nasconderle e a trovarle sono giocatori e appassionati che si scambiano su internet le coordinate delle “cache” (“nascondigli” o “posti segreti”), come vengono chiamate, e che dopo averle scoperte le lasciano lì. Se la ricerca si basa quindi su internet e sulla tecnologia GPS (Global Positioning System) di cui ormai è dotato ogni smartphone, una volta raggiunto il luogo del tesoro i giocatori devono però impegnarsi analogicamente per trovare oggetti che spesso sono molto ben nascosti o mimetizzati. Oltre ad appositi siti e app per lasciare traccia dell’avvenuto ritrovamento di una cache, compilano poi in genere un “logbook”, un diario (o anche solo un semplice registro o foglio firme) che accompagna le cache.

Geocaching.com – il principale sito di geocaching, gestito dalla società Groundspeak –dice che al momento ci sono oltre tre milioni di cache presenti nel mondo, nascoste da centinaia di migliaia di utenti e cercate da quelli che, solo su geocaching.com, sono tre milioni di utenti attivi. Il geocaching, insomma, è la più grande caccia al tesoro al mondo: per verificarlo basta scaricare Geocaching o una delle altre app e vedere quante cache ci sono anche in Italia, non solo nelle grandi città. Solo in Italia, secondo geocaching.com, gli utenti attivi – che cercano e che nascondono – sono circa 135mila.

Più che dai pirati, il geocaching prende ispirazione da una pratica nota coma letterboxing, che prevedeva appunto di nascondere all’aperto piccole scatole o cassette di legno, con all’interno testi o lettere di vario tipo, il tutto senza aver prima lasciato indizi su come trovarle. Si racconta che questa pratica ebbe particolare fortuna nell’Inghilterra dell’Ottocento, grazie a una guida che disseminò delle cassette in luoghi particolarmente remoti e nascosti, che altri si misero poi a cercare.

È plausibile comunque che del letterboxing non sapesse nulla il consulente informatico Dave Ulmer quando, il 3 maggio 2000, mise un contenitore (secondo alcune versioni un secchio o un bidone) accanto a piccola strada a un paio di chilometri dalla sua casa a Beavercreek, in Oregon, infilandoci dentro un registro da firmare e alcuni altri oggetti, compresi alcuni libri e una scatola di fagioli (che è ancora conservata e nota tra gli appassionati come la “Original Can of Beans”). Su una pagina web che realizzò per l’occasione (internet non era così diffuso, ma già c’era) e sulla quale comunicò le coordinate GPS del contenitore inaugurò quindi la “Great American GPS Stash Hunt”.

La data non fu per niente casuale. Il 2 maggio 2000, infatti, l’amministrazione statunitense guidata da Bill Clinton aveva rimosso con effetto immediato il “Selective Availability”, un sistema che rendeva volutamente impreciso il sistema di posizionamento satellitare per usi civili. Il margine di errore, che ancora oggi è in genere di qualche metro (soprattutto in città), si avvicinava ai 100 metri.

Con quel contenitore e quel messaggio corredato da coordinate GPS Ulmer voleva insomma sia celebrare che mettere alla prova quella promettente novità.

Il primo a trovare il contenitore, tre giorni più dopo che Ulmer l’aveva nascosto, fu un certo Mike Teague, che unendosi poi ad altri appassionati contribuì a ideare il nome geocaching, a creare un sito, a istituire una serie di regole e pratiche condivise.

Sebbene esistano numerose varianti, evoluzioni e sottocategorie del geocaching, ancora oggi l’essenza resta semplice: qualcuno nasconde una cache, ci mette dentro un logbook e magari anche altri oggetti, e poi mette le coordinate, e magari altre informazioni e ulteriori indizi, su pagine o app dedicate. E qualcun altro usa il GPS per arrivare nell’area in cui si trova la cache per poi mettersi a cercarla partendo da eventuali indizi.

Certe cache – alcune delle quali grandi giusto un paio di centimetri – possono essere nascoste nel centro delle città, magari in corrispondenza di famosi monumenti. Altre, invece, sono in luoghi isolati che qualcuno vuole far scoprire ad altri giocatori. Oltre ovviamente a non rovinare la cache e il suo contenuto e a riporla dove la si è trovata, le norme consigliano di non mettere cibo nelle scatole e di non posizionarle in luoghi oggettivamente troppo pericolosi o in cui è vietato l’accesso.

Now that is what I’m talkin’ spout! Who else was surprised by this one? ✋😂✋

Image by essivalt.#geocaching pic.twitter.com/CwJYOM4ysT

— Geocaching (@GoGeocaching) August 1, 2022

Una pratica piuttosto diffusa prevede che chi trova una cache, dopo averla aperta e prima di rimetterla al suo posto, ci possa lasciare dentro altri oggetti di piccolo valore e anche che possano identificarlo personalmente, per esempio monete, spille o piastrine come quelle dei militari. Chiedendo a chi troverà quella stessa cache dopo di lui di prendere quegli oggetti e farli arrivare altrove di cache in cache. Talvolta, nel caso di nuove cache, chi le nasconde inserisce oggetti o ricompense di maggior valore per i FTF, i First to Find, i primi a trovare quella cache.

Tra le varianti più diffuse ci sono il multi-cache (in cui due o più cache sono da trovare in un determinato ordine, con la prima che contiene indizi per la seconda e così via), cache che richiedono di risolvere indovinelli, enigmi o quiz, eventi di gruppo o sponsorizzati da aziende. Ci sono poi casi in cui certe cache si possono trovare solo facendo immersioni, arrampicate o altre attività specifiche.

Giovanni Donadelli, conservatore del Museo di Geografia di Padova ed esperto di giochi geografici, racconta che scoprì il geocaching nel 2011, durante il dottorato legato alle applicazioni educative della geografia, e che da allora ha organizzato più di una decina di eventi legati a progetti di ricerca che hanno in qualche modo avuto a che fare col geocaching o sue derivazioni.

Per farlo spiega però di aver un po’ «riadattato e contrabbandato» il gioco, per esempio superando la regola di geocaching.com che impone di non mettere due cache troppo vicine tra loro. Donadelli ritiene che, oltre a poter diventare «strumento di motivazione ed engagement», il geocaching può essere infatti un’occasione per riflettere su orientamento e tecnologie, e che spesso – per esempio tra le calli di Chioggia e Venezia, dove il segnale GPS “rimbalza” e risulta impreciso – giocandoci si rivelano indispensabili anche le mappe e qualche competenza di cartografia. In questo senso, il geocaching si può quindi avvicinare alla pratica, in genere più sportiva e meno ricreativa, da caccia al tesoro, dell’orienteering.

Oltre che scopi educativi, il geocaching può unirsi anche a finalità turistiche, per esempio associandosi a specifici sentieri o determinate località. Qualche anno fa c’erano persino, spiega Donadelli, alberghi che nel nord-est d’Italia (l’area più vicina alla Germania, dove il geocaching era particolarmente diffuso) offrivano dispositivi GPS e indicazioni per cercare cache nelle relative vicinanze.

Con riferimento alla sua personale esperienza di gioco, nel 2020 Donadelli aveva ricordato in un articolo scritto per il Touring Club Italiano «la scoperta», attraverso il geocaching, «di tutte le contrade di Siena fatta un contenitore alla volta, oppure il ripasso di storia assaporato sulla vetta di Cima Dodici (Altopiano di Asiago, VI) in compagnia dei testi di Mario Rigoni Stern, o ancora la lezione imparata sulla bellissima Scala dei Turchi (Agrigento, AG) grazie alla rispettiva Earth Cache».

Donadelli, che dice di aver «cercato, trovato e nascosto» per anni, da un po’ di tempo ha smesso causa mancanza di tempo, ma continua comunque a occuparsi di qualche sua cache nascosta (chi le mette deve prendersene cura) e potrebbe ricominciare anche a cercarle, le cache, visto che ha due bambini «che stanno per entrare in età utile».

@hullsome

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♬ The Office – The Hyphenate

In Italia, più che sul sito Geocachingitalia.it, non più aggiornato da alcuni anni, ci sono un paio di migliaia di iscritti a due pagine Facebook legate all’attività. Ad aprire sito e pagine fu, un po’ più di dieci anni fa, Alessandro Garbagnati, che lavora nella gestione dei dati per aziende. Garbagnati – che ha 56 anni e che da un paio circa ha smesso di dedicarsi al geocaching – ci si appassionò nei primi anni del Duemila, quando il gioco era ancora piuttosto di nicchia e mentre lui viveva negli Stati Uniti.

Garbagnati ricorda che del geocaching lo appassionò il fatto che unisse la tecnologia alla possibilità, mentre si cercavano i cache (lui è per il maschile), di scoprire posti e scorci nuovi. Ancora ricorda, per esempio, la cache che lo portò a vedere da un punto di vista piuttosto inconsueto i piloni del Golden Gate di San Francisco. La sua prima cache risale invece a un viaggio in Arizona: «me lo ricordo ancora» dice, «sotto un sasso in mezzo a una zona mezza deserta».

Tornato in Italia una decina di anni fa, Garbagnati si portò dietro la passione per il geocaching e fu tra i primi a praticarlo in Italia. «Passare da cercare a nascondere è qualcosa di personale, io prima di poterne nascondere uno ho voluto aspettare un po’ di tempo». Un po’ di tempo, nel suo caso, significa decine e decine di cache trovate (nella sua vita stima che siano qualcosa come 800). Con la pratica, Garbagnati divenne anche un reviewer, cioè quello che controlla che chi nasconde cache lo faccia rispettando determinate regole: non mettere altri in pericolo, ovviamente, ma anche non usare il geocaching per finalità di marketing o di pubblicità.

Garbagnati spiega che, con la pratica, un geocacher impara a riconoscere stili e tecniche di chi nasconde certe cache («è un po’ come i serial killer che lasciano la firma») e cita, tra gli altri, il caso di un rullino fotografico nascosto in un muro o un finto pezzo di una recinzione che in realtà era proprio una cache. È insomma probabile che molti di noi siano passati sopra, sotto o accanto a qualche cache senza essersene accorti, ed è anche possibile aver visto qualche geocacher all’opera, anche in quel caso senza però accorgersene. Di solito infatti chi cerca le cache non ama essere notato, e c’è quindi una generale tendenza a dissimulare quel che si sta facendo.

È inoltre piuttosto comune che, nei gruppi, nei siti e nelle discussioni tra geocacher i non praticanti vengano definiti muggles in inglese e babbani in italiano, gli stessi nomi con cui nel mondo di Harry Potter si fa riferimento a chi non ha abilità magiche e non è nato in una famiglia di maghi. Il gergo dei geocacher è piuttosto ampio.

Garbagnati dice che essendo appassionato di fotografia e avendo, ai tempi, una figlia piccola, gli riusciva piuttosto facile nascondere o cercare cose senza essere visto da “babbani”. «Con una macchina fotografica e un passeggino» dice «potevo fare di tutto».

In un’occasione una cache che aveva nascosto sotto il cappello della statua di Indro Montanelli ai Giardini di Porta Venezia, a Milano, arrivò perfino sui giornali. Dopo uno dei diversi imbrattamenti di protesta della statua, la polizia la trovò e ipotizzò che fosse una bomba. «Allarme in pieno centro a Milano, per un involucro sospetto» scrisse il Corriere della Sera, mentre il Sole 24 Ore parlò più semplicemente di «una piccola scatola cilindrica» contenete «una striscia di carta bianca sulla quale erano stati scritti dei numeri».

Nonostante punti a essere una pacifica attività all’aria aperta e nonostante il lavoro di supervisione (o comunque di autoregolamentazione interna) che in molti casi viene fatto, in questi vent’anni il geocaching ha avuto qualche problema per via di cache messe in luoghi inaccessibili, o anche solo troppo impervi e pericolosi, con conseguenze simili a quelle che interessarono per l’app Pokémon Go o, ancor prima, il suo antenato Ingress. Anche per prevenire equivoci come quello della statua di Montanelli, esistono scatole “omologate”.

– Leggi anche: Dove vuole andare l’azienda di Pokémon Go

(Groundspeak Inc./ dba Geocaching)

Un’altra questione riguarda il fatto che, seppur con le migliori intenzioni, il geocaching prevede comunque di lasciare in giro, per le strade così come in mezzo al verde, scatole, oggetti, contenitori e cianfrusaglie varie. Esiste, a questo proposito, l’iniziativa “cache in trash out”, che prevede di abbinare la ricerca alla raccolta dei rifiuti nell’area.

Oltre al geocaching, e in certi casi proprio in risposta, negli ultimi anni si sono diffuse pratiche che, pur partendo da premesse simili, non sono considerate sottocategorie bensì attività diverse, con altri nomi, che sono di volta in volta più competitive, più divulgative, più codificate o più complicate. Ce n’è anche una, il Munzee, in cui anziché trovare cose bisogna trovare QR Code.

– Leggi anche: La rivincita dei QR Code

Negli ultimi anni, la diffusione degli smartphone con geolocalizzazione ha senz’altro reso il geocaching più semplice e facile da diffondere. Ma c’è anche chi sostiene, dice Garbagnati, che gli smartphone abbiano «distrutto il mondo del geocaching», rendendo troppo diffusa una pratica che prima era praticata da una nicchia. Allo stesso modo, tra certi puristi c’è anche chi non vede benissimo il fatto che una società come Groundspeak possa, di fatto, controllare il geocaching e avere interessi economici di vario genere.

Per quanto lo riguarda, Garbagnati dice di aver smesso di giocare più che altro per questioni di tempo, ma che ancora gli capita, mentre è in giro, di guardarsi intorno pensando che certi posti potrebbero essere ottimi per nascondere qualche cache.

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