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Il cibo di plastica giapponese che costa più di quello vero

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In Giappone, le vetrine dei ristoranti sono piene di riproduzioni a dimensioni reali e molto realistiche dei piatti presenti nel menù. Lo scopo di questi oggetti da esposizione è lo stesso delle foto che a volte si trovano nei menù dei ristoranti turistici in altre parti del mondo: mostrare a chi passa cosa offre la cucina e possibilmente fargli venire voglia di fermarsi a mangiarlo. Questo almeno era l’obiettivo all’inizio, prima che questi modellini di plastica diventassero loro stessi oggetti di valore e cominciassero a essere venduti anche ai turisti e ai privati, a prezzi anche piuttosto alti.

Si chiamano shokuhin sampuru, che tradotto in italiano vuol dire “modelli di cibo”, e per sembrare veri, gustosi e invitanti come dei piatti veri vengono ancora in gran parte dipinti a mano. In Giappone quella dei sampuru è un’industria multimilionaria e recentemente sta crescendo anche in Cina e Corea.

Il New York Times Magazine ha pubblicato un reportage fotografico della fotografa Kyoko Hamada (che è anche un’artista), che si può vedere in parte anche sul suo profilo Instagram. Mostra alcune delle cose esposte a Kappabashi, la zona di Tokyo dove si concentrano i negozi di attrezzature per la cucina e la maggior parte dei negozi di sampuru, che viene infatti chiamata anche Kitchen Town, “città della cucina”. Dalle foto si nota molto bene come bastino piccoli dettagli per fare la differenza tra modelli che sembrano quasi veri e altri che no.

I primi esordi di questa tradizione risalgono probabilmente all’Ottocento, alla fine del periodo Edo, quando le bancarelle di cibo esponevano piatti veri di tempura, noodles e sushi per mostrare ai passanti le quantità delle porzioni che vendevano. Naturalmente, venivano buttati a fine giornata.

L’idea di fare dei piatti finti arrivò circa un secolo fa, ma negli ultimi decenni la tecnica per farli si è affinata moltissimo e il prezzo di questi prodotti è salito. Negli anni Venti i sampuru venivano usati spesso in sostituzione dei menù, oltre che per rendere l’offerta più comprensibile agli stranieri che sempre di più visitavano il paese. Allora però la gamma di colori da cui attingere era limitata e le riproduzioni erano quasi sempre in cera, un materiale facilmente deformabile col caldo. Negli anni Settanta si è cominciato a fare i sampuru con un tipo di plastica (il polivinilcloruro) più costoso ma anche molto più durevole, che è quello che si usa nella maggior parte dei casi ancora adesso.

Ganso Shokuhin Sample-ya è uno dei negozi di sampuru più prestigiosi di Kappabashi e appartiene all’azienda leader in questo settore, Iwasaki-Be-I, per cui lavorano 68 artigiani in sei fabbriche. Quando il New York Times ha chiesto a un dipendente di Iwasaki qual è la cosa più difficile per gli artigiani che fanno sampuru, lui ha citato le sfumature di verde delle foglie e il calore del cibo appena cotto: «non importa quanto ti sforzi, i modelli alla fine sembrano sempre freddi».

La principale difficoltà e il motivo per cui gran parte della produzione di questi modelli è ancora artigianale, è che vengono prodotti su ordinazione dei ristoratori, che portano alle aziende le porzioni di cibo vero da replicare o indicazioni molto precise sulle loro specifiche ricette. Per ogni ordine il procedimento ricomincia dall’inizio ed è impossibile standardizzare il processo. In questo incide probabilmente anche la grande cultura gastronomica del Giappone e la sensibilità diffusa della popolazione nei confronti del buon cibo e della cucina.

Molti ristoranti ora noleggiano i sampuru anziché comprarli: un po’ perché i menù possono cambiare frequentemente, un po’ perché i modelli più elaborati possono arrivare a costare parecchio. Per un’intera vetrina si possono spendere anche diverse migliaia di euro e alcuni modellini molto elaborati, come quello del celacanto, un antichissimo pesce usato nella cucina giapponese, può arrivare a costarne anche 15mila.

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