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Gabriele Salvatores: «Silvio Orlando era senza soldi, mia mamma lo invitava a cena. Paolo Rossi è autodistruttivo»

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di Renato Franco

Il regista e l’Oscar per «Mediterraneo»: «L’ho conservato a lungo in bagno, ora lo uso come reggi-libri. Ancora adesso non capisco come sia possibile che abbia vinto io». E su Abatantuono: «Più di un amico, è un parente. Ha un talento enorme che non coltiva»

«Quando Sylvester Stallone ha annunciato il film vincitore ha detto “Italy” ma io ho capito “Ilary”. Ho subito pensato che nella cinquina ci fosse un sesto film di cui non avevo mai sentito parlare». Gabriele Salvatores ha cresciuto con il suo cinema fatto di amicizia e ironia, di viaggi e illusioni, di fuga e malinconia, di sogni e inganni, una generazione che si è riconosciuta nel suo immaginario; l’incontro di tante solitudini che si sono ritrovate unite in una speranza collettiva, perché in fondo non siamo così diversi, ognuno con le sue fragilità e le sue aspettative. L’Oscar per Mediterraneo come punto più alto, quella statuetta che ti fa svoltare nella percezione «non di te stesso, ma degli altri».

Agli Oscar il suo è forse stato il discorso più breve dei discorsi brevi: 27 secondi.


«C’erano due problemi. Il primo è che non so l’inglese; il secondo che non pensavo di vincere. Il favorito era Lanterne Rosse di Zhang Yimou, e anche io ero convinto che lo avrebbero premiato. È un film bellissimo, ancora adesso non capisco come sia possibile che abbia vinto io».

Cosa ricorda di quella sera?

«Diversi momenti, come la faccia di Warren Beatty in prima fila che mi fissava e l’incontro con Zhang Yimou in bagno. Io sono con l’Oscar in mano perché te lo consegnano senza nemmeno una scatola, lui sta sommessamente piangendo; ne è nato un dialogo dove io quasi mi scusavo e lui non capiva; poi lui ha guardato l’Oscar e mi ha detto qualcosa che per fortuna non ho capito».

Nel backstage ci fu anche l’abbraccio con Abatantuono…

«Io ormai ero già fidanzato con la sua ex moglie, Rita. Lo raggiungo in una saletta con l’Oscar quando vediamo una porta che si apre e una donna che corre inseguita dalla security; è Rita e io e Diego urliamo insieme: no, no, lasciate passare, è mia moglie, è nostra moglie…».

Per arrivare a Hollywood era partito da Napoli. Cosa le ha lasciato la sua città natale?

«Napoli mi ha insegnato la sua grande verità, saper ridere delle disgrazie, la capacità di unire tragedia e commedia che ha alimentato il mio modo di essere e il mio cinema. Un’altra lezione è quel senso molto greco, antico, di aspettare la fortuna, di affidarsi a quel che succede: quel che sarà, sarà».

Quando lei aveva sei anni vi siete trasferiti a Milano, fu accolto da «terrone»?

«Mio padre si trasferì a Milano prima di Rocco e i suoi fratelli, era la Milano con le scritte “Non si affitta ai meridionali”, ma è una città che mi ha accolto e mi ha permesso di essere quello che sono, anche “calcisticamente”. Io ovviamente tifavo Napoli, ma a furia di mazzate — vere, fisiche — i compagni di classe mi costrinsero a scegliere una delle due squadre di Milano. Decisi di tifare Inter perché nella maglia c’era l’azzurro del Napoli».

Suo papà cosa le ha insegnato?

«Mio padre — avvocato napoletano, crociano, formazione super classica e democratica —, voleva che facessi Legge. Quando gli ho detto che volevo dedicarmi al teatro è stato zitto per una giornata, poi la sera mi disse: la vita è la tua, se vuoi fare l’idraulico fallo, ma cerca di essere il miglior idraulico del quartiere. Vincere l’Oscar è stato come prendersi la laurea; la prima telefonata la feci ai miei genitori. Lui non mi ha mai costretto a fare nulla, quando qualcosa non gli andava applicava un dissenso ironico. Sembra incredibile a vedermi adesso ma da ragazzo avevo i capelli lunghi fino alle spalle, lui mi ammoniva: quando camminiamo insieme per strada per favore vai sull’altro marciapiede».

Sua mamma?

«Faceva un sotterraneo e continuo tifo per le mie scelte. Nei miei primi anni a teatro batteva a macchina i nostri copioni, cuciva i costumi, invitava a casa Silvio Orlando che allora non aveva una lira e mangiava spesso da noi. Era una casalinga con tre figli, faceva un lavoro fondamentale che non viene retribuito, ha tenuto insieme la famiglia, era il collante».

Ventenne di sinistra nella Milano degli anni 70, le idee eversive allora furono seducenti per tanti. Lei come schivò quella tentazione?

«Per capire il clima basta questo aneddoto che raccontavo l’altro giorno a Mario Capanna. Io adoravo la musica — volevo fare il musicista in realtà — e avevo visto una meravigliosa chitarra elettrica in un negozio di piazza Diaz, quando riuscii finalmente a comprarla, il pomeriggio stesso andai a una riunione all’università Statale che dichiarò la chitarra elettrica e Bob Dylan strumenti del capitalismo americano. Quel giorno decisi che forse non era il caso di seguire più di tanto il loro approccio… L’arte è stata un ottimo antidoto perché quel tipo di sirena suonava per tanti, anche tra i tecnici del Teatro dell’Elfo dove tutto cominciò. Ho capito che si poteva fare teatro in maniera politica invece che fare la politica a teatro».

È sempre di sinistra?


«La militanza di sinistra — allora la sinistra c’era, oggi non c’è più — è sempre rimasta sia nel lavoro sia a livello personale. Sono cresciuto con una mentalità fortemente collettiva del lavoro, odio dire “il mio film”, “il mio cinema”. Gli attori per me sono anche autori, sono fondamentali, non sono gli strumenti di una sinfonia, sono “la” sinfonia, sono importanti quanto il testo. Per questo con gli attori con cui ho lavorato ho cercato di creare se non una famiglia, una specie di tribù».

Il suo è uno stretto intreccio tra cinema e amicizia.

«Sono affezionato profondamente a tutti gli attori con cui ho lavorato. Silvio Orlando, Antonio Catania, Gigio Alberti, Elio De Capitani, Paolo Rossi, Claudio Bisio: è un legame che è rimasto forte nonostante gli anni che passano».

«Marrakech Express» fece decollare la sua carriera.

«Nacque sotto una buona stella, intercettando emozioni, desideri e sogni di tanti. Un film divertente ma che ha anche dei lati malinconici, di riflessione e poesia».

Il set non fu solo lavoro…

«Una sera si giocava Bayern Monaco – Inter di Coppa Uefa, quella del famoso gol di Berti che si fa tutto il campo. Diego era l’unico che aveva la radiolina e continuava a dire che eravamo zero a zero».

Poi ci fu la svolta di «Mediterraneo».

«Doveva chiamarsi Lasciateci perdere, giocando su un doppio significato: nel senso di perdersi e nel senso di lasciateci stare. Anche se è ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, raccontava anche l’Italia di allora, quella disillusione di chi pensava di poter cambiare la società. Erano gli anni di Berlusconi, delle tv private, di quell’abbassamento del gusto — anche visivo — che è stato rovinoso. È la fine del sentimento collettivo e la vittoria dell’individualismo, dell’edonismo della Milano da bere, un isolamento che poi si è amplificato con i social, che in realtà sono luoghi di falsa condivisone».

Quel film (l’altro era «Turné») concludeva la sua «trilogia della fuga»…

«A proposito di fuga, Diego diceva che per entrare nella storia del cinema per sempre bisognava cambiare una vocale… La fuga andava intesa non come evasione, come vacanza, se no l’avrei chiamato Méditerranée… La fuga non è il rifiuto della responsabilità ma la ricerca della libertà e di un posto nuovo».

Cos’è il cinema per lei?

«Il cinema non è solo voglia di raccontare una storia ma anche l’esigenza di fare i conti con se stessi. Fare il regista è stata la mia vera terapia, la certezza di poter controllare quello che nella vita non puoi. Come regista ti sembra di poter governare quello che ti circonda, nella vita invece non c’è copione».

Ha avuto tanti riconoscimenti dal pubblico. E la critica?

«Brecht diceva che un artista deve sempre stare almeno un passo davanti al suo pubblico. Non dieci, però, senza perderlo di vista. È qui il problema: se prepari una cena per gli amici, cucini quello che piace a te, senza pensare ai loro gusti, ma, poi ti fa piacere se vengono a mangiarla e apprezzano. Ho sempre cercato di sperimentare nuove forme di racconto, ma non mi piace pensare di dover insegnare qualcosa a nessuno, di dover dimostrare di essere più intelligente del pubblico. Oltre ai grandi Maestri che ammiro, amo anche registi che non sempre vengono considerati “Maestri”: Sam Peckinpah, Germi, Cassavetes, Brian De Palma, Bob Rafelson, Bogdanovich, Altman… Forse è questo mio stare un po’ in mezzo tra la ricerca e la voglia di comunicare. Ho sempre considerato il Cinema un’arte popolare».

L’Oscar dove lo tiene?

«Ho avuto un rapporto strano con quella statuetta. L’Oscar non è un microchip che ti infili in testa e diventi più bravo; quando lo vinci sei esattamente come prima, ma sia gli spettatori sia gli addetti ai lavori si aspettano da te qualcosa di speciale. Però io non volevo entrare in competizione con me stesso, così per un po’ di tempo l’ho tenuto in bagno, poi in ufficio, adesso ci ho fatto pace e fa da reggi-libri a una serie di libri sul cinema».

Fisicamente diversi, lei magro e aria zen, lui debordante e carnale. Abatantuono ha praticamente fatto tutti i suoi film, cosa vi lega?

«Abatantuono è più di un amico, è un parente. Questo ricordo sintetizza più di ogni altro il nostro rapporto. Una volta, eravamo a Lucca, e portavo a scuola Marta — sua figlia, avuta da Rita l’ex moglie diventata mia compagna — che andava in prima elementare. Scendevamo dai tornanti, lei era assorta. Dopo un paio di curve mi fa: “Gabriele, che cosa vuol dire frocio?”. No, guarda, allora, ti spiego: frocio è una parolaccia, è un insulto. Tu puoi dire gay, omosessuale… Si tratta di uomini a cui piacciono altri uomini, è amore ed è rispettabile. Altri tre tornanti e Marta: “Gabriele, ma a te la mamma piace?”. E certo che mi piace, mi piace molto, ci sto insieme. “E allora perché papà dice che sei frocio?”».

Che attore è Abatantuono?

«Se lo metti in mezzo a dieci persone, tutti istintivamente guarderanno lui. Ha un talento enorme che non coltiva. Un po’ per una sua naturale pigrizia, un po’ perché è stato bollato come il terrunciello dei film. Ha presenza, carisma, sarebbe un meraviglioso Re Lear. È un malinconico che sente la solitudine, non vuole mai essere l’ultimo ad andare via».

Chi altro secondo lei non ha sfruttato fino in fondo il suo talento?

«Penso a Paolo Rossi. Tra noi nacque subito una grande simpatia, una sintonia immediata grazie a Comedians, il testo di Trevor Griffiths, un autore trozkista che ancora oggi mi scrive “Caro compagno”…. Ma senza divagare, Paolo Rossi se non avesse quel demone autodistruttivo che lo perseguita sarebbe diventato come Gaber, come Jannacci, ha una stoffa speciale, da attore e poeta».

Ha 71 anni, l’età che avanza…

«…fa girare le palle. Il poeta Mario De Andrade descriveva la vita come un pacchetto di caramelle date a un bambino. All’inizio le mangi avidamente, quando stanno per finire vedi che il sacchetto di caramelle si sta riducendo e diventi più riflessivo: io mi voglio gustare le caramelle che restano».

25 giugno 2022 (modifica il 25 giugno 2022 | 08:48)

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