Franco Nero: «Paul Newman mi chiese un autografo. John Huston mi ordinò: spogliati»

di Roberta Scorranese

L’attore, classe 1941, si racconta: la carriera e i 55 anni d’amore con Vanessa Redgrave

Il suo vero nome?


«Francesco Clemente Giuseppe Sparanero, nato il 23 novembre 1941, pochi giorni dopo il bombardamento di Pearl Harbor».

Che famiglia era la sua?


«Mia nonna era una gitana dell’Andalusia, in Puglia conobbe mio nonno. Ma io sono nato a Parma, perché mio padre faceva il carabiniere. Vocazione? No, arruolarsi era una via di fuga dalla fame. La guerra ci aveva rubato tutto, ma ricordo bene quando, al cinema, vidi per la prima volta Il fiume rosso, il film con John Wayne diretto da Howard Hawks».

Che cosa la colpì?


«I cavalli, la loro forza. E vent’anni dopo, lo stesso John Wayne mi chiamò per complimentarsi per Django e mi volle dare un consiglio: “Franco, non scegliere mai dei cavalli troppo belli, sennò tutti guarderanno loro e non te”».

È sempre stato conscio della sua bellezza?


«Da ragazzo mi innamoravo spesso e tante ricambiavano, questo mi dava sicurezza. Una volta ho anche avuto un flirt con una suora che mi assisteva in un periodo di degenza in ospedale. Mio padre voleva che facessi l’ufficiale dei carabinieri come lui, ma io andai da Strehler a Milano e gli dissi che volevo fare l’attore. Poi un giorno, mentre mi dividevo tra studi di economia, teatro amatoriale e un lavoro da contabile, un fotografo mi notò. Mi fece tanti scatti e quelle foto finirono sul tavolo di John Huston».

Leggendario regista di «Giungla d’asfalto».


«E di decine di altri capolavori. Mi volle incontrare, arrivai nel suo hotel, a Roma. Non era da solo, c’erano assistenti, collaboratrici. Un sigaro gli pendeva dalla bocca, mi guardò per qualche minuto e poi mi disse: “Spogliati”».

Del tutto?


«Un imbarazzo tremendo. Lui e i collaboratori mi squadravano con freddezza professionale mentre io non osavo guardarli negli occhi. Ma non potevo sapere che quello era un provino per interpretare il ruolo di Abele ne La Bibbia».

Però ne valse la pena, no? Almeno è quello che lei racconta nella sua autobiografia «Django e gli altri».


«Sì, perché cominciarono a cercarmi sul serio. Dino De Laurentiis si incaponì: voleva che come nome d’arte mi chiamassi Castel Romano perché gli stabilimenti si trovavano lì. Mi veniva da piangere. Huston lo convinse a farmi assegnare Franco Nero, ma De Laurentiis se la legò al dito e da allora non mi ha più voluto con lui».

Poi però arrivò «Django» di Sergio Corbucci, la vera svolta della sua carriera?


«Penso di sì. All’epoca si giravano tantissimi western, la critica li snobbava, ma avevano successo. Cominciammo le riprese il 24 dicembre 1965, un freddo cane. Durarono mesi, ogni tanto ci si fermava perché finivano i soldi. La sera uscivo col direttore della fotografia Enzo Barboni, che si lamentava per un copione che aveva scritto e che nessuno voleva fargli dirigere. Era il copione di Lo chiamavano Trinità».

Sergio Leone. Lo ha conosciuto?


«Una volta venne a trovarci sul set. Mi guardò e disse a Corbucci: “Con questo hai fatto 13”».

Gli spaghetti western si giravano con pochissimi soldi, ma erano ricchi di trovate e di trucchi scenici. Come si riusciva a farli?


«Non c’erano quattrini per le controfigure, quindi io imparai a cavalcare, a sparare, a saltare nelle paludi. Finii in ospedale, perché la pozza di fango dove mi ero tuffato era troppo fredda. Ma anche stavolta ne valse la pena: quando uscì ebbe un successo strepitoso. Fu il primo western vietato ai minori di 18 anni in Italia e di 17 in America, ma divenne un cult: una copia del film è conservata addirittura al MoMa di New York».

Quentin Tarantino le ha reso omaggio con «Django Unchained» del 2012.


«Mi ha voluto nel film in un cameo. E poi sa che cosa fece? Sequestrò il cast e fece vedere il film più volte, voleva che lo memorizzassero».

E così, dopo «Django» si aprì la strada verso Hollywood.


«Sì, con un colossal in costume, Camelot. Sul set venne a trovarci Clint Eastwood che mi si avvicinò e borbottò: “Eh, tu stai qui a fare i colossal mentre io sto in Italia a fare spaghetti western”».

Lei faceva Lancillotto e a interpretare Ginevra c’era Vanessa Redgrave. Che cosa pensò la prima volta che la vide?


«Era spettinata, struccata, jeans strappati. Mi voltai verso il regista e dissi: “E quella hippy lì dovrebbe far perdere la testa a Lancillotto?”».

E invece.


«E invece eccoci qua, innamorati da cinquantacinque anni».

Con una lunga pausa di separazione in mezzo, seguita da un re-innamoramento.


«Sì, io dico sempre che ci siamo presi una pausa. Erano nate incomprensioni, c’erano delle liti e come tanti abbiamo ceduto alla distanza. Poi però ci siamo ritrovati nella maturità, con una maggiore consapevolezza, dopo aver attraversato altre vite, separatamente. In fondo, anche negli anni in cui eravamo divisi, ci siamo sempre stati l’uno per l’altra. Oggi quello che ci unisce è questa presenza fisica molto forte. Pensi che in questi giorni lei è a Londra, recita in My Fair Lady. Sono andato a trovarla ma dovevo ripartire quasi subito, per altri impegni. Lei mi ha abbracciato dicendomi: “Non andare, dai”».

E vi siete sposati in segreto nel 2006, cinquant’anni dopo il vostro primo incontro.


«Non abbiamo mai smesso di amarci».

Insieme avete dato vita a una delle coppie più belle di Hollywood.


«E io ero sempre lì, incredulo. Incontravo persone straordinarie. Se Lawrence Olivier una volta mi disse: “Puoi fare la star, girare un film all’anno da protagonista e sperare che vada sempre bene, oppure puoi fare l’attore e divertirti”, il consiglio migliore me lo diede Marlon Brando, che un giorno mi fece: “Franco, non fare mai secondi o terzi ruoli. Sempre e solo protagonista o al massimo fai un cameo”. E così ho fatto».

È vero che lei andava a pescare con Burt Lancaster?


«Sì, era un grande amico. Pescava anche abbastanza bene. Zeffirelli mi aveva prestato un appartamento dove ricevevo amici e conoscenti. Tra questi anche John Voight: il mio bambino Carlo giocava spesso con la sua figliola. Una ragazzina che sarebbe diventata poi famosa con il nome di Angelina Jolie».

Gli anni Settanta e Ottanta in America: una favola per il cinema.


«Qualche volta mi sembrava di sognare. Andavo a cena con Steve McQueen. Frank Sinatra volle a tutti i costi che lo accompagnassi nello studio di registrazione dove Nelson Riddle lo attendeva per incidere That’s Life. Una volta, a una festa, Paul Newman mi si avvicinò tra il timido e il perplesso. “Che c’è, Paul?”, gli dissi. E lui, alla fine: “Franco, posso avere una tua foto con autografo? È per mia figlia, si è innamorata di te”. Non riuscivo a crederci: uno dei miei miti che mi chiedeva l’autografo. Sono stato fortunato, sì».

Già, perché lei all’epoca girava un film all’anno, forse anche due-tre all’anno: Chabrol, Bellocchio, Lizzani, Hamilton, Fassbinder.


«Ho così tanti ricordi che faccio fatica a visualizzarli, si accalcano in testa come onde. Qualche tempo fa ho incontrato Steven Spielberg: lui giura che una sera a una festa io mi sono ingelosito perché lui ha ballato tutto il tempo con Vanessa, ma io non mi ricordo niente. Boh».

Mamma e papà come vivevano il suo successo?


«Quando interpretai il Capitano Bellodi ne Il giorno della civetta di Damiano Damiani, tratto dal romanzo di Sciascia, mio padre fu finalmente felice: in un modo o nell’altro aveva realizzato il sogno di vedermi una divisa da carabiniere addosso. Alla sua morte, mi mandarono a chiamare: papà mi aveva lasciato una piccola somma su un libretto postale. Era quanto io guadagnavo in una giornata di lavoro. Cominciai a piangere, perché per me quella somma era un tesoro».

Chi fu a starle vicino in quel periodo?


«Quando papà morì, Anthony Quinn, con cui stavo lavorando, mi disse: “Franco, da oggi sarò io tuo padre”. Tony ha mantenuto la promessa E come padre lo salutai, quando lui morì nel 2001, nell’omelia funebre che tenni a Rhode Island».

Lei ha anche girato un film in Jugoslavia quando c’era Tito. Come si lavorava?


«La battaglia della Neretva rievocava la resistenza partigiana della Jugoslavia durante la Seconda guerra mondiale. Il Maresciallo Tito in persona visionava il girato giornaliero: era pur sempre un film di Stato. La locandina venne realizzata da Pablo Picasso, che in cambio volle solo una cassa di vini».

Com’era lavorare con Luis Buñuel?


«Non mi ha mai chiamato per nome, sempre e solo Nero. Alla fine del film che girai con lui, Tristana, gli chiesi perché. Mi rispose che odiava troppo Franco, cioè il dittatore e mi confidò che una volta aveva anche tentato di ucciderlo».

E con Chabrol?


«Mangiava sempre, ma anche Buñuel faceva una cosa curiosa: nascondeva pane e prosciutto in una borsetta e mangiava di nascosto, perché, diceva, se mi vedono gli altri poi vogliono fare pausa e qui bisogna lavorare».

Chi è stato un suo grande amico?


«Vittorio Gassman. Ogni tanto veniva a cena da noi e declamava il menu con la sua famosa enfasi: “Prosciutto cruuudo, pollo arroooosto”. Quante risate. Lui mi ha fatto il più bel complimento. In un libro scrisse: “Non sono gay, ma se dovessi scegliere qualcuno con cui andare su un’isola deserta sceglierei Franco Nero”».

8 giugno 2022 (modifica il 8 giugno 2022 | 23:34)

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