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Don Ciotti: «Io prete e basta. Bisogna prendere posizione». Cinquant’anni di battaglie

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di Goffredo Buccini

Dall’impegno con i tossicodipendenti alla lotta contro le mafie. Le minacce di Riina, l’amicizia con Caselli, l’uso dei beni confiscati. Vita di un animo ribelle, fin dal calamaio scagliato alla maestra

È un brutto giorno di fine ottobre del 1975. In una saletta spoglia del cimitero sud di Torino, ancora poco più che un cantiere, un giovane magistrato piange davanti alla bara di un collega e amico, annegato durante un’immersione sub. Quella morte insensata sta scuotendo così a fondo la sua fragile fede da lasciarlo ammutolito quando il prete coi paramenti viola, anche lui molto giovane, traccia nell’aria il segno della croce e inizia la messa funebre. Poi il prete parla, come in una parabola incarnata: della vita e dell’assurdità di quella bara tra loro, toccando corde di verità. «Non saprei ripeterne neanche una sillaba, ma quel prete mi aprì uno spiraglio», sorride adesso Giancarlo Caselli, il giovane magistrato di quarantasette anni fa: «Così quel giorno persi un amico ma ne trovai un altro, che mi ha accompagnato e rappresenta la Chiesa che amo».

Il prete col dono di parlare a tutti come se parlasse a ciascuno si chiamava Luigi Ciotti, aveva da poco compiuto i trent’anni e molti gli si rivolgevano con un confidenziale «don Gigi» nella Torino spavalda e spaventata d’allora, che correva appresso al benessere e fingeva di non vederne le contraddizioni mortali. Don Gigi non solo le vedeva: ci si tuffava a capofitto. «Avevo un occhio allenato agli ultimi, li scovavo», ha raccontato in una bella intervista a Roberta Scorranese. Erano gli anni delle stragi d’eroina, una realtà così smisurata per la società perbenista da rendere inadeguato anche chi la descriveva: «Ci sono loro, i “diversi”, quelli che hanno consumato la droga, hanno rubato, si sono prostituiti», si poteva leggere (testualmente) su qualche rinomato settimanale dell’epoca.

Forse gli inizi sono un buon periodo per narrare don Ciotti, che col tempo è diventato così monumentale e bravo a raccontarsi a giornalisti talmente pigri nel raccontarlo da produrre uno stereotipo che si ripete da almeno quattro o cinque lustri e, ripetendosi, non gli rende giustizia: prete antimafia, prete antidroga, prete operaio, prete di strada, tutte etichette anguste per un sacerdote che, come spiegò a Michele Brambilla, si considera «prete e basta», perché l’idea di prete contiene evangelicamente tutte le altre e soprattutto contiene la risposta alla domanda fondamentale di Caino, «sono forse io il custode di mio fratello?»: sì.

Don Gigi aveva creato il Gruppo Abele quando ancora non era stato ordinato, nel 1965. Era un ventenne figlio di poverissimi immigrati veneti, cresciuto in baracca, con nel cuore le «sue» Dolomiti e una grande rabbia verso le ingiustizie. Ha raccontato mille volte l’episodio del calamaio scagliato contro la maestra che gli dava del «montanaro» perché la madre non poteva comprargli un grembiule decente. Avesse incontrato compagni sbagliati, chissà, uno così poteva finire persino su una strada storta. Aveva invece incontrato quello giusto, il Vangelo, e più che un compagno un padre: monsignor Michele Pellegrino che, da arcivescovo di Torino, sfidava la Curia romana per difendere il suo clero irrequieto.

Il più irrequieto era quel ragazzo che scappava dal seminario dicendo ai superiori che andava ad aiutare una parrocchia di periferia e appena fuori si buttava tra «prostitute, ladri, omosessuali, delinquenti d’ogni risma… quei ragazzi mi accettavano, anche perché non sapevano che ero un prete e non facevo predicozzi inutili», raccontò un giorno a padre Nazareno Fabbretti. Dato che il nostro non si drogava e non bestemmiava, per sviare i sospetti pare accettasse di fare «un borseggio, il minimo esame che dovevo superare». Poi, si trattò di vedersela col «capobanda» per contendergli le anime della ghenga. Quello era «un marcantonio alto così» ma lui doveva già avere… aiuti superiori e lo stese. È lì il punto di partenza, la strada sarà la sua parrocchia.

La «roba» si vendeva sotto i portici di via Roma e perfino sulle bancarelle dei mercati rionali, un grammo a 60mila lire. I ragazzi cadevano. Don Ciotti li acchiappava per i capelli: «Non parlate di recupero, non definiteci missionari, non fate pietismo gratuito», ammoniva dalla cascina del Monferrato dove aveva incominciato a raccoglierli. Il resto è arcinoto e nobile: mezzo secolo di impegno civile, scioperi della fame, raccolte di firme, obiezione di coscienza contro leggi antidroga sbagliate e «mostri giuridici» come le norme sui migranti e la Fini-Giovanardi che appiattisce tossicodipendenti e spacciatori in un abbraccio mortale. Gli spacciatori prendono a minacciarlo presto, «finirai come Rostagno», l’ex leader di Lc assassinato in Sicilia dalla mafia: finisce sotto scorta, scorta sempre più fitta quando pure Totò Riina comincia a interessarsi a lui, «Ciotti, Ciotti, putessimo pure ammazzallo».

A quel tempo l’ha già spuntata sul reimpiego sociale dei beni confiscati ai mafiosi e ha già creato Libera, nel 1995, evoluzione civile del gruppo Abele e calamita di centinaia di associazioni contro picciotti e padrini, perché non basta aiutare i tossici, devi fermare chi ci si arricchisce sopra: le mafie. La battaglia si sposta a Palermo, suo sodale è più che mai Caselli, che lui incoraggia ad accettare l’incarico terribile di procuratore nella città che ammazza i suoi giudici migliori. Accanto al letto tiene le foto di Pertini e del cardinal Martini, in libreria il Vangelo e la Costituzione, sue bussole, sull’altare una sgualcita Bibbia in inglese appartenuta a un migrante affogato davanti a Lampedusa, perché «l’amore non basta», ha scritto nell’autobiografia: bisogna «prendere posizione», «non amo la paccaterapia», le pacche consolatorie… Chi a sua volta non lo ama (e ce n’è parecchi: l’uomo, come si dice, è «divisivo») lo considera un «Savonarola» bravo a usare la retorica «sfruttando le emozioni», uno che ha messo in piedi business, brand e altri anglicismi che con la parola di Gesù non c’entrano granché. Ma sono chiacchiere, veleni di fazione.

Caselli si considera «un Ciotti-dipendente» da molti anni. Tanti, ancora, ormai nonni, spingendo un passeggino, fermano don Luigi per strada, «ti ricordi di me? Ero uno dei tuoi ragazzi, ce l’ho fatta, sono uscito dalla droga, ho trovato l’amore». Io sono «tu che mi fai», diceva un altro grande prete, don Giussani. Quel «tu» misterioso, in certe vite, ha preso la faccia incazzosa e le mani ruvide d’un vecchio ragazzo di montagna.

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4 maggio 2022 (modifica il 5 maggio 2022 | 10:40)

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