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Dnipro, l’ultimo bastione prima del Donbass IL REPORTAGE

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 Al di là del fiume, negli uffici di un vecchio palazzo dell’epoca d’oro dell’Unione Sovietica, alcune donne si muovono freneticamente tra le stanze. In una di queste la porta si apre e si chiude centinaia di volte al giorno ed è sempre presidiata: qui si ragiona su approvvigionamenti, numeri, contatti e arrivi umanitari da tutto il mondo. E così negli inventari improvvisati, tra i pannolini e i barattoli di pomodoro, ci sono anche mostrine e gradi di stoffa: se ne trovano migliaia su uno scaffale da ufficio legati a mazzetti con una molla, ma si cercano sempre più giubbotti anti-proiettili, elmetti militari, razioni K e kit medici per i soldati. L’ultimo avamposto che garantisce sostegno e approvvigionamenti alla difesa dell’Est si trova a Dnipro: la città che da un lato tende la mano ai profughi e dall’altro arma il braccio della resistenza.



    Fin dai primi giorni della guerra qui arrivavano fino a cinquecento civili al giorno, che chiedevano un kalashnikov per andare al fronte: “Li indirizzavamo al commissariato militare perché sì, questo è il Centro di coordinamento dei volontari della difesa territoriale, ma l’arruolamento dovevano farlo lì.

    Noi raccogliamo le cose che servono per poi portarle al fronte”, spiega Katerina Leonova, una delle responsabili. Poi è cominciata la fibrillazione dei territori del Sud e sempre più spesso quei furgoni ritornavano alla base carichi di persone in fuga.

    Dnipro, dove si concentra la più grande comunità ebraica dell’Ucraina ma anche il più alto tasso di criminalità del Paese, ha sempre agito sfrontatamente all’assalto delle milizie russe, che qui finora hanno colpito ma senza affondare. Quattro giorni fa sono arrivati nel territorio una decina di missili che hanno distrutto l’aeroporto e qualche settimana prima nella vicina Pavlohrad era stata colpita la stazione ferroviaria. La città grigia tagliata a metà dal fiume, con i suoi palazzi vecchi e spesso malridotti, sembra però noncurante, nonostante i sacchi di sabbia e i cavali di frisia ovunque. “L’unica cosa a cui dobbiamo stare attenti è il bombardamento del ponte – dicono in tanti – affinché non si resti isolati a Sud o a Nord. Perché possiamo essere ancora decisivi”.

    A fare la differenza intanto qui è la tenacia delle donne, che sostiene gli uomini al fronte. “Non è una novità – spiega Leonova – dal 2014 le donne hanno cominciato ad arruolarsi e rappresentano circa il 10% della difesa territoriale, molte altre vanno al fronte come infermiere e medici, fanno reti mimetiche, cucinano grossi quantitativi di cibo, gestiscono la distribuzione di medicine e si occupano dei registri. E c’è una differenza con le soldatesse dell’esercito, che invece hanno gli stessi ruoli degli uomini: sono cecchini, combattono dietro ai mortai o in fanteria”.

    A un paio di chilometri, invece, Tatiana Yanushkevich, un avvocato bielorusso e polacco, mostra orgogliosa la stanza per i bambini profughi appena verniciata, che allestirà con disegni sulle pareti e i tappeti di gomma. “Finora abbiamo registrato centomila persone che arrivano da tutta la regione di Donestk qui a Dnipro. Nell’ex dormitorio degli operai russi che nella città costruivano la stazione della metro, ci sono adesso 323 rifugiati, tra cui 70 bimbi: popolano i cinque piani dell’edificio, sistemati nelle stanze percorse dai corridoi bui e asfissianti. Le notizie peggiori arrivano sempre da Mariupol, dove, dicono i nuovi ospiti, “l’unico modo per uscire da quell’incubo è andare in Crimea o Russia, dove alcuni ci dicono di essere stati costretti a stare nudi di fronte ai soldati. In quella città manca cibo e molti sono costretti a bere acqua di neve. I primi a morire sono i più piccoli, per la fame”. Ma per loro adesso Dnipro è una culla, che accoglie i bambini come una madre e al contempo fronteggia l’invasore come un’amazzone.



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