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Da Churchill al Covid dai Beatles alla Brexit. Lilibet ha attraversato la storia con il sorriso di compunta eleganza. L’arcobaleno d’addio

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I sigari cubani di Winston Churchill, le dimissioni di Anthony Eden, l’intransigenza di Lord Harold MacMillan , i Beatles e gli Stones, la Guerra e il terrorismo, la Thatcher e lo sciopero dei minatori, Wilson e Blair, l’avvento della televisione e dei computer, Mary Quant e la Mini Minor, i matrimoni e i divorzi di tre figli su quattro, la morte di Diana, Eisenhower e De Gaulle, Nixon e Kennedy, Kruscev e l’imperatore Hirohito, otto pontefici, due Olimpiadi londinesi, Wimbledon e Wembley, James Bond e sir «Hannibal» Anthony Hopkins, il virus e la Brexit.

Elizabeth Alexandra Mary è stata la regina di tutto questo, sovrana del Regno Unito e del resto del Mondo, una donna con la corona, figlia dei duchi di York e madre di principi e principesse, moglie eterna di Filippo di Edimburgo ombra al suo fianco, appena un passo dietro la sua figura, mai maestosa, tronfia, superba, ma sempre più piccola, rannicchiata, non curva, statuetta di se stessa. Elisabetta II è stata per tutti la Prima, quasi Unica, sovrana, superiore e distante da altre dinastie nobili, interprete di una monarchia, per forma fuori dal tempo, per sostanza adeguata ai cambiamenti repentini. Elisabetta è sembrata fredda e distaccata a chi l’ha vista e immaginata regina di un regno che non ha favole da raccontare, una casa reale che durante la guerra si era imposta le razioni e l’acqua non più alta di otto centimetri nella vasca da bagno. Chi ha conosciuto e frequentato Elisabetta può assicurare il contrario, scrivendo e ricordando di una donna di campagna, per spirito e piacere di vivere, disposta al foulard e all’impermeabile di tela cerata piuttosto che alla corona e all’ermellino. Ha guidato camion («sono la prima regina con la patente» ma poi non è stato più vero), è andata in carrozza, ha montato a cavallo, ha voluto essere circondata dai cani, i corgis e i dordis, un incrocio, questi ultimi, con un bassotto, non bellissimi ma fedeli come si deve non soltanto in una corte regale. Dio l’ha salvata per quasi un secolo, offrendo al mondo l’immagine di un’Inghilterra che cercava di resistere alle intemperie politiche e sociali, con la bandiera di Buckingham piantata dovunque, nel nome di Elisabetta e del suo regno. I muri rossi affumicati dallo smog e dal carbone rappresentano l’immagine di un Paese che non ha mai voluto demolire il proprio passato di sangue, sudore e lacrime. Di un’isola che tale è rimasta con Elisabetta gendarme dell’istituzione, dall’alta terra di Scozia fino alle scogliere di Dover, United Kingdom, diviso dai confini, unito dal senso della patria. Non ha avuto nemici, nessuno ha mai osato mettere in pericolo la sua persona, quasi fosse la sola al mondo a non dover temere per la propria vita. Semmai quella dei propri figli e parenti, spesso liberi di fare, dire, viaggiare, andare in guerra come in discoteca, travestirsi e divertirsi, tra donne, donnine e donnacce e pub, scandali e telefonate erotiche, ricatti e denunce. L’equilibrio di una donna che a tredici anni ascoltò la voce di Neville Chamberlain annunciare la dichiarazione di guerra alla Germania di Hitler e a diciannove volle fare parte del Servizio Ausiliario di terra dell’esercito britannico; suo padre, Giorgio VI, in principio contrario, dovette accettarne la decisione. Una fotografia risale al maggio del Trentasette, ritrae la famiglia reale al balcone di Buckingham nel giorno dell’incoronazione di re Giorgio VI: il sovrano porta la corona più alta e preziosa, quindi la nonna, regina madre Mary, carica di gioielli, poi Elizabeth Bowes Lyon, con la tiara storta, madre della piccola Margareth e dell’undicenne Elisabetta, in primissima fila rispetto al re, entrambe sorridenti e già dotate di diadema. Il volto di Elisabetta ha la stessa espressione di settant’anni dopo, il dolce sorriso e la luce dello sguardo, donna austera e cauta, secondo lezione di famiglia «Ho imparato come impara una scimmia, guardando i propri genitori». È una storia incominciata e proseguita attraverso mille altre vicende contrassegnate dallo stesso simbolo. In un’altra istantanea, storica per i personaggi immortalati, Elisabetta assiste con fierezza alla presentazione di una targa marmorea per i cento anni dalla nascita della Regina Mary; appena più in là, ma di fianco a lei, ci sono Wallis Simpson, per poche ore accolta a corte, con una smorfia di disagio sul volto e il marito, Edoardo VIII, Duca di Windsor, con il capo chino, quasi intimorito, per riverenza alla regina il cui posto sarebbe stato il suo, senza la passione per la donna americana.

Gli abiti di Elisabetta, dai colori vivi e improbabili, così voluti dalla sicurezza, per individuarla subito in mezzo alla folla, le borsette per tenere impegnate le mani, i cappelli di fogge bizzarre secondo repertorio inglese. Si narra che un giorno Margareth Thatcher si fosse presentata a un incontro con Sua Maestà indossando un abito simile se non uguale a quello della sovrana. Il protocollo di Downing Street inviò una lettera ai colleghi di Buckingham per far sì che al successivo incontro si evitasse l’equivoco d’abbigliamento. La replica di palazzo reale fu da commedia dell’arte: «La regina non si occupa mai di come siano vestite le sue ospiti». Si racconta che Elisabetta soffrisse non poco il peso fisico (due chilogrammi e mezzo) della corona e si allenasse passeggiando in pantofole per le dimore, Balmoral, Windsor, Buckingham, tenendo sul capo un pacco di zucchero di uguale peso della tiara. Ha vissuto l’Annus Horribilis, che non era quello del conflitto bellico, ma il 1992, in quella occasione ricordò un dialogo tra il vescovo di Canterbury e la regina Vittoria: «Ma’am, non posso pregare troppo e nemmeno spesso per la famiglia reale», la sovrana replicò «Troppo no, ma spesso sì». Elisabetta, osservante fedele e governatore supremo della chiesa anglicana, in quell’anno horribilis decise di dare la possibilità alle donne di diventare sacerdoti. E ha firmato la legge sulle nozze gay. Ha avuto quello che ha voluto, come per qualunque sovrano, ma senza esibire mai il potere e il possesso. Per uno statuto del 1324 è stata proprietaria anche di tutti i delfini, le balene e gli storioni delle acque britanniche. È rimasta al confine nei suoi castelli, prigioniera del virus, ha accettato in silenzio l’uscita del suo Paese dall’Europa, ha visto con disagio e rabbia la propria immagine sgraziata nella serie televisiva The Crown, ha scelto il riserbo pubblico nella vicenda del figlio Andrew e dei suoi vizi erotici e del nipote Harry con i capricci della sposa americana che ha dato astutamente il nome di Lilibet alla propria secondogenita, ha mantenuto, come sempre, in entrambe le vicende, una severità opportuna, silenziosa ma decisa, rigorosa. Ha vissuto con la stessa discrezione l’epilogo della vita e dell’amore di suo marito, il principe Filippo, avventuroso e avventuriero. Insieme hanno segnato un’epoca irripetibile. Un secolo regale si è concluso e chiuso. Ci saranno altre regine, non ci sarà più un’altra Elizabeth. Buckingham è un Palazzo senza luce, improvvisamente senza storia. Il silenzio è un tulle nero che avvolge il regno. L’isola sembra deserta. Dopo la pioggia, l’arcobaleno in cielo saluta sua maestà.

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