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Curarsi dal Covid in una miniera di sale

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La divulgatrice scientifica ed ex ricercatrice Agnese Codignola ha pubblicato con la casa editrice UTET Il lungo Covid, un’indagine ricca di documenti e testimonianze sulle conseguenze a lungo termine del coronavirus. Stando agli studi riportati, una percentuale compresa tra il 10 e il 30 per cento dei pazienti guariti ufficialmente dal Covid-19 presenta, anche a mesi di distanza dalla negativizzazione, una condizione riconducibile alla malattia: i sintomi osservati sono più di 200, e vanno da un senso prolungato di affaticamento alla confusione mentale, dalle distorsioni di gusto e olfatto alle difficoltà respiratorie. Codignola, che ha raccontato approfonditamente l’evoluzione della pandemia sul Sole 24 Ore, racconta che il fenomeno è stato inizialmente trascurato ma che potrebbe essere una delle conseguenze più significative una volta contenuta la fase acuta della pandemia.

Codignola considera il long Covid, noto anche come sindrome post-COVID-19, e le vite difficili dei cosiddetti long haulers – chi appunto trascina sintomi riconducibili al virus per mesi e mesi – sotto molti aspetti: quello scientifico, osservando il passaggio di un virus da una specie all’altra; quello storico, in cui ricostruisce alcune grandi epidemie respiratorie del passato e le conseguenze che hanno lasciato; quello virologico e patologico, dove indaga come un virus scomparso dall’organismo possa ancora influenzarlo e quello sociologico, dedicato alle possibili conseguenze della pandemia sulla società.

Il libro è suddiviso in tre parti: la prima ricostruisce l’emergere del long Covid, i sintomi di chi ne è colpito e le loro difficoltà nel venire riconosciuti e curati; la seconda racconta epidemie che in passato lasciarono sintomi duraturi riconducibili a quelli del coronavirus – come la Nona malattia a fine Ottocento o una misteriosa epidemia tra le infermiere di Los Angeles negli anni Trenta –, e la terza è dedicata alla costruzione di possibili cure. Da quest’ultima proviene il seguente estratto: racconta di un sanatorio costruito in una miniera salina a Wieliczka, in Polonia, in cui si pratica la riabilitazione respiratoria basata sui benefici dell’aria satura di sale. Da anni la struttura è usata per malati asmatici e tubercolotici ma ora ospita ex malati di Covid-19, che erano stati intubati o colpiti da polmoniti molto gravi, e long hauler.

– Leggi anche: Quelli che non guariscono dalla COVID-19

A Wieliczka, vicino a Cracovia, in Polonia, c’è una sterminata miniera di sale, sfruttata fin dal XIII secolo, e patrimonio dell’Unesco dal 1978. Le sue gallerie si estendono per quasi trecento chilometri, fino a una profondità di 327 metri, e portano alle oltre 2350 stanze scavate dai minatori ininterrottamente per otto secoli. In alcune di queste, che si affacciano direttamente sul lago interno Wessel con bellissimi balconi in legno, lo spettacolo, da qualche mese, è piuttosto inusuale. Piccoli gruppi di persone di tutte le età, sotto la guida di insegnanti specializzati, fisioterapisti e medici, alternano sessioni di ginnastica dolce ad altre di esercizi per la respirazione, controllando poi la funzionalità dei loro polmoni con uno strumento tanto semplice quanto poco ortodosso: la formazione di bolle di sapone, che una volta create (se il paziente ce la fa), si librano in aria e si riflettono nell’acqua, per poi fondersi con essa.



Responsabile del programma è Magdalena Kostrzon, un’esperta di haloterapia, cioè di riabilitazione respiratoria basata sui benefici dell’aria satura di sale – particolarmente pura, farcita di minerali e grondante di umidità –, che da molti anni propone cicli di cure ai malati gravemente asmatici. L’aria che arriva alle logge sul lago, infatti, percorre decine di chilometri in un’atmosfera ricca di cloruro di sodio e acqua, e per questo giunge in grandi bolle, depurata da microrganismi, inquinanti e allergeni, e particolarmente adatta a calmare le infiammazioni polmonari. O, almeno, questo è quanto sostengono i responsabili del centro.

Negli ultimi mesi, però, gli asmatici sono stati quasi totalmente sostituiti da un’altra tipologia di pazienti: gli ex malati di Covid che hanno avuto conseguenze sulla funzionalità respiratoria, per esempio per la polmonite, o perché sono stati intubati. E i Long hauler. I risultati – stando alle testimonianze raccolte dalla “Reuters” – sono più che positivi. L’unicità di quei luoghi, il silenzio, l’aria purissima sarebbero infatti di per se stessi terapeutici, così come lo sarebbero i minerali presenti, che sembrano esercitare una funzione riparatrice sugli epiteli dell’apparato respiratorio danneggiati dal virus. Se a questo si unisce il fatto di ritrovarsi insieme ad altri pazienti e di fronte a medici attenti e disponibili, il successo è (sarebbe) assicurato.

Una sessione di fisioterapia per ex malati di Covid-19 nella miniera di Wieliczka, Polonia, 12 marzo 2021 (Omar Marques/Getty Images)

Kostrzon e alcuni specialisti degli ospedali della zona, del resto, propongono una terapia che, pur non essendo riconosciuta da nessuna autorità sanitaria, è praticata con finalità analoghe da molto tempo, soprattutto in Europa orientale e centrale. In effetti, per decenni i benefici dell’aria pura sui polmoni sofferenti sono stati l’unica cura disponibile contro malattie quali la tubercolosi, prima degli antibiotici e dei vaccini, e hanno costituito la base su cui realizzare, a tutte le latitudini, in alta quota come sul mare, sanatori estesi a volte come città, che oggi sono riconsiderati anche per il Long Covid. L’idea di curare con l’aria rarefatta e satura di sali non è quindi una novità, anzi.

In più, nel caso del Covid, altri indizi suggeriscono che ci siano basi fisiologiche per una qualche efficacia. Per esempio, si è visto che chi risiede in aree costiere tende ad ammalarsi di meno, probabilmente proprio a causa di una serie di azioni positive esercitate dai sali presenti nell’atmosfera e dall’umidità.

Una fisioterapista segue due pazienti ex malate di Covid-19 nella miniera di Wieliczka, Polonia, 12 marzo 2021 (Omar Marques/Getty Images)

Tuttavia, si tratta di percorsi terapeutici che non sono mai stati convalidati da studi condotti con rigore scienti fico. E questo genera discussioni di difficile composizione, se affrontate con un approccio rigorosamente ed esclusivamente basato su effetti misurabili. Infatti, se alcuni pensano che esistano ormai prove sufficienti dell’efficacia del combinato di sali più umidità, così come dell’aria arricchita in ossigeno, molti altri ritengono che si tratti solo di un effetto placebo particolarmente accentuato, assicurato dalle atmosfere del tutto peculiari di luoghi come un’antica miniera, e amplificato dalla grande attenzione con la quale i terapisti si prendono cura dei malati.


Ma la situazione, in realtà, è più complessa di così.

Per quanto riguarda l’aspetto psicologico, il beneficio era stato ipotizzato già dal pioniere di questa terapia, Feliks Boczkowski, medico polacco che nel 1826 inaugurò le cure al sale proponendole per una miriade di disturbi. Tra i quali, ça va sans dire, spiccavano quelli femminili come l’infertilità, la stanchezza e l’inevitabile isteria. Boczkowski non ebbe fortuna, perché la sua terapia non sopravvisse alla sua morte, ma indubbiamente chi sta vivendo la condizione del Long hauler, magari da mesi, isolato in casa, senza terapie, non può che beneficiare di giornate come quelle del protocollo di Kostrzon, che prevedono sessioni di non meno di sei ore, per quindici giorni consecutivi (al costo di 500 euro), in un luogo magico, in compagnia di persone nella stessa condizione, accudite da specialisti che non sottovalutano il loro disagio e, anzi, se ne fanno carico.

Diversi esperti, come David Putrino, che stanno cercando di mettere a punto protocolli specifici, così come molti rappresentanti dei malati, sottolineano proprio questo aspetto: a differenza di quanto accaduto per altre patologie difficili, che si è tentato inutilmente di affrontare con approcci esclusivamente farmacologici o comunque riabilitativi in senso stretto, questa volta è fondamentale che le cure siano olistiche, e siano progettate (e poi verificate) in modo multidisciplinare fin dall’inizio, tenendo conto della persona nel suo insieme, e non solo delle cause biologiche della malattia. Dunque, liquidare l’effetto di una giornata in miniera (così come di altre possibili terapie non ancora ufficializzate) con l’argomento che non ci sono ancora prove scientifiche dell’ef ficacia potrebbe essere, in questo caso, una visione riduttiva, poco moderna e in fin dei conti sterile di tutta la questione.

Al tempo stesso, tuttavia, non si può ignorare il rischio che un’enfasi eccessiva su un benessere poco dimostrabile possa portare acqua al mulino di chi pensa che il Long Covid sia solo l’espressione di un disturbo psicologico. E non si possono di certo sottovalutare i rischi di pratiche di non dimostrata efficacia e sicurezza.


La situazione, dunque, è assai delicata, e illustra le dif ficoltà che stanno incontrando coloro che cercano di capire come aiutare chi soffre di Long Covid: è complicato avere un’idea chiara del concetto stesso di cura, per una malattia così tentacolare.

(© UTET 2022)

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