Covid, la terapia con antinfiammatori  riduce le ospedalizzazioni del 90 per cento L’ondata d’autunno e ‘Centaurus’: cosa sapere

di Laura Cuppini

Se i contagi dovessero tornare a salire, la terapia precoce potrebbe scongiurare la pressione eccessiva sugli ospedali e gli elevati costi dei trattamenti, tra gli aspetti più drammatici della pandemia

Il meccanismo con cui l’infezione da Sars-CoV-2 determina uno stato infiammatorio potenzialmente letale è complesso e ancora non del tutto chiaro. Ma dopo due anni e mezzo di pandemia la comunità scientifica concorda su un punto: a uccidere i malati è l’infiammazione (o flogosi), non il virus. L’ipotesi di intervenire precocemente per spegnerla è stata oggetto di diversi studi e un ampio lavoro pubblicato oggi su Lancet Infectious Diseases, condotto dall’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri e dall’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo, mette un punto fermo sulla questione: la terapia a base di antinfiammatori (in particolare non steroidei, i Fans), avviata all’inizio dei sintomi, riduce il rischio di ospedalizzazione dell’85-90%. Gli autori — Giuseppe Remuzzi, Fredy Suter, Norberto Perico e Monica Cortinovis — hanno preso in esame tutti gli studi pubblicati su riviste scientifiche di valore, condotti tra il 2020 e il 2021 (inclusi due lavori dello stesso Istituto Mario Negri), su un totale di cinquemila pazienti, tra gruppi di studio e di controllo.

Forme lievi e moderate

I risultati sono di grande interesse rispetto all’efficacia dei Fans nel trattamento delle forme lievi e moderate di Covid che non richiedono il ricovero: accessi al pronto soccorso e ospedalizzazioni scendono dell’80% (dato accorpato), le sole ospedalizzazioni dell’85-90%, il tempo di risoluzione dei sintomi si accorcia dell’80% e la necessità di supplementazione di ossigeno del 100%. Se i contagi dovessero tornare a salire, la terapia precoce con antinfiammatori — è importante che sia gestita dai medici di famiglia, per i possibili effetti collaterali e le interazioni con altri farmaci — potrebbe scongiurare la pressione eccessiva sugli ospedali (e i costi altissimi dei trattamenti, soprattutto in terapia intensiva), uno degli aspetti più drammatici della pandemia. Non solo. I Fans, tra i farmaci più comunemente utilizzati in tutto il mondo, possono rappresentare un’opzione realistica per la cura di Covid nei Paesi a basso reddito, dove le coperture vaccinali sono spesso basse e c’è scarsa disponibilità di altri farmaci più costosi per i sistemi sanitari (antivirali, anticorpi monoclonali).

L’effetto dei farmaci

Gli autori del lavoro, dal titolo suggestivo «La casa come nuova frontiera per il trattamento di Covid-19: il caso degli antinfiammatori», hanno preso in esame in particolare i farmaci inibitori relativamente selettivi della Cox-2 (ciclossigenasi), un enzima coinvolto in diversi processi fisiologici e patologici. Celecoxib e Nimesulide sono risultati particolarmente efficaci contro la malattia causata da Sars-CoV-2; valide alternative sono ibuprofene e aspirina. I Fans inibiscono, oltre alla Cox-2, anche un altro enzima, simile ma non identico, la Cox-1, meno implicata nell’infiammazione e collegata invece al rischio di effetti collaterali a livello gastrointestinale, che si verificano in particolare se gli antinfiammatori vengono assunti in alte dosi per più di 3-4 giorni.

Risposta infiammatoria

La flogosi, che in alcuni pazienti raggiunge livelli parossistici determinando una cascata di eventi che può condurre alla morte, è associata a diversi fattori: il rilascio di citochine e radicali liberi, l’induzione di interferone gamma e l’attivazione di particolari leucociti. È stato inoltre ipotizzato che l’aggravamento possa dipendere da un eccesso di angiotensina-II, proteina che stimola i processi infiammatori. «L’insieme delle prove disponibili — scrivono gli autori — evidenzia il ruolo cruciale della «disregolazione» della risposta immunitaria e della risposta iper infiammatoria nell’avvio e nell’esacerbazione di Covid». I risultati dello studio condotto dagli scienziati del Mario Negri e del Papa Giovanni XXIII ribaltano definitivamente un’ipotesi che era stata avanzata nei primi tempi della pandemia, secondo cui gli antinfiammatori non steroidei (e in particolare l’ibuprofene) potrebbero aumentare la suscettibilità all’infezione da Sars-CoV-2 e aggravare i sintomi di Covid. Diverse indagini condotte negli ultimi due anni hanno contribuito a smontare questa teoria: non è stata rilevata alcuna associazione tra la terapia con Fans e un aumento o peggioramento degli esiti clinici (per esempio ricovero in terapia intensiva, ventilazione meccanica, somministrazione di ossigeno) nei pazienti con Covid, nemmeno in coloro che assumevano farmaci antinfiammatori già prima dell’infezione, per esempio per curare una malattia reumatica.

26 agosto 2022 (modifica il 26 agosto 2022 | 08:05)

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