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Come si dovrebbe reagire a un’aggressione in pubblico?

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L’omicidio di Alika Ogorchukwu, aggredito e ucciso da un uomo per strada venerdì a Civitanova Marche (Macerata), ha generato sui giornali e sui social network un’estesa discussione in merito alle reazioni delle persone presenti al momento dell’aggressione, avvenuta in una trafficata via del centro intorno alle 14. Secondo le ricostruzioni, Ogorchukwu è stato prima attaccato con la stampella che utilizzava per camminare, a lui sottratta dall’aggressore, e poi colpito a mani nude. L’aggressione sarebbe durata in totale quattro minuti, alla presenza di almeno quattro persone, due delle quali anziane.

In attesa che l’autopsia chiarisca le cause della morte, la ricostruzione dei fatti è stata facilitata da un filmato circolato molto sui media e girato con lo smartphone da una delle persone presenti in corso Umberto I, una ragazza di 28 anni. Il video mostra Ogorchukwu che cerca di liberarsi dalla presa dell’aggressore e viene poi immobilizzato a terra, mentre alcune persone esclamano: «Fermati!», «Lo ammazzi, così!».

La discussione alimentata dall’omicidio di Civitanova Marche ha ripreso negli ultimi giorni una serie di motivi ricorrenti nei casi di aggressione in pubblico, anche in altri paesi. In molti, incluso l’avvocato della famiglia di Ogorchukwu, hanno attribuito la corresponsabilità del delitto all’«indifferenza» delle persone. Altri hanno segnalato o criticato un’inclinazione a filmare scene di aggressioni, definendola prevalente e controproducente rispetto a quella di intervenire per tentare di interromperle, le aggressioni.

Dall’altra parte, altri commentatori hanno invece segnalato quanto il video sia stato utile e prezioso non soltanto per le indagini, come affermato dagli investigatori, ma anche per lo sviluppo della discussione stessa. Riflessioni dello stesso tipo, seppure in un contesto e in circostanze molto diverse, furono fatte negli Stati Uniti nel 2020 in occasione dell’omicidio di George Floyd, ripreso da una passante in un video poi circolato molto e da subito online, e ritenuto fondamentale per gli sviluppi del successivo dibattito, delle proteste e del processo agli agenti di polizia.

L’autrice della ripresa dell’omicidio di Floyd, una ragazza di 17 anni, si rammaricò in seguito di non aver fatto di più quel giorno. Ma il caso della morte di Floyd, ucciso da un poliziotto armato, presentava caratteristiche peculiari perlopiù assenti nei casi di aggressione che avvengono fuori dagli Stati Uniti.

George Floyd

Un fotogramma di un filmato ripreso da una telecamera indossata da uno degli agenti di polizia intervenuti il giorno della morte di George Floyd il 25 maggio 2020, a Minneapolis: l’autrice del video poi circolato online, Darnella Frazier, è la terza da destra (Polizia di Minneapolis tramite AP)

Uno dei principali argomenti condivisi tra le persone che criticano la scelta di filmare un’aggressione è che questo comportamento, per quanto utile possa dimostrarsi in un secondo momento, sia del tutto inutile rispetto all’obiettivo di provare a interrompere l’aggressione nell’immediato. Questa critica tiene anche conto del fatto che riprendere l’aggressione di nascosto non avrebbe peraltro alcun eventuale effetto deterrente sulle persone coinvolte, ammesso che sia quello l’obiettivo di chi filma.

Altre persone sostengono che la prontezza nel riprendere con uno smartphone una violenza o un qualsiasi evento fuori dall’ordinario sia da ormai diversi anni collegata almeno in parte a un desiderio di ricevere attenzioni e gratificazioni istantanee attraverso la successiva condivisione del video sui social. E che la familiarità con gli strumenti di registrazione abbia reso le persone più apatiche. Escludono che l’azione di riprendere possa invece essere associata a un’intenzione esplicita di documentare un fatto e contribuire a chiarirne successivamente la dinamica.

– Leggi anche: La prima ricostruzione dell’omicidio di Alika Ogorchukwu

In generale è piuttosto diffusa in una parte dell’opinione pubblica una tendenza a commentare negativamente qualsiasi comportamento diverso dall’intervento fisico tempestivo, a prescindere da quali siano le ragioni alla base delle reazioni di tipo diverso. L’obiezione condivisa da un’altra parte dell’opinione pubblica è che, soprattutto di fronte a gesti di estrema violenza, la ferocia dell’aggressore o il dubbio che sia armato possano agire da deterrente tra persone spaventate di rimanere mortalmente coinvolte nello scontro, come peraltro avvenuto in casi di cronaca molto raccontati e commentati.

Non è detto poi che una persona che assiste a un’aggressione non abbia già tentato inutilmente di fermarla o non abbia già avvisato le autorità. «Ho provato a fermarlo, non ci sono riuscito, però ho chiamato la polizia e l’ho fatto arrestare», ha detto a Repubblica una delle persone presenti al momento dell’omicidio di Ogorchukwu. Una persona che scegliesse di filmare l’aggressione, magari dopo aver avvisato la polizia e in attesa dell’intervento, potrebbe inoltre ritenere quel gesto il solo modo di rendersi utile in considerazione di altre situazioni o condizioni (una particolare fragilità fisica, per esempio), o ritenerlo comunque meglio che ignorare del tutto cosa sta accadendo.

morte Alika Ogorchukwu

Una donna osserva i fiori deposti sul luogo dell’omicidio di Alika Ogorchukwu, a Civitanova Marche, sabato 30 luglio 2022 (AP/Chiara Gabrielli)

Un’altra parte delle discussioni generate da casi di aggressione contraddistinti da un’apparente indifferenza delle persone riguarda l’influenza che alcuni meccanismi psicologici possono avere in circostanze di questo tipo sulle percezioni e sui comportamenti di chi assiste a una violenza.

Spesso viene fatto notare dagli specialisti quanto le valutazioni a posteriori tendano a essere condizionate da fattori non presenti al momento dell’aggressione. A posteriori si sa già che l’aggressione si concluderà con la morte di uno dei soggetti coinvolti, per esempio, e si sa che qualsiasi valutazione dei fatti non pone rischi per la propria persona.

In base a un fenomeno noto nella psicologia sociale fin dagli anni Sessanta come «effetto spettatore» (bystander effect) – e che uno studio recente ha peraltro riscontrato anche in animali non umani – la decisione se intervenire o meno per aiutare una persona in difficoltà è fortemente condizionata dalla presenza o meno di altre persone. Secondo il principio dell’effetto spettatore, la probabilità della vittima di ricevere aiuto è inversamente correlata alla quantità di spettatori presenti al momento dell’aggressione.

Tra le ragioni addotte per spiegare questo comportamento negli esseri umani c’è la diffusione della responsabilità, ossia la percezione di non sentirsi chiamati né obbligati a fornire aiuto perché non ci si sente più responsabili di quell’aiuto rispetto ad altre persone. E c’è anche un fattore di influenza sociale reciproca, ossia una tendenza a giudicare il mancato intervento di altre persone come una prova che non ci sia in fondo motivo di intervenire.

In anni più recenti, alcuni studi di neuroscienze hanno in parte ridimensionato l’idea a lungo prevalente che le persone sperimentino l’effetto spettatore tutte allo stesso modo e negli stessi termini. I ricercatori ipotizzano attualmente che le reazioni siano condizionate anche dai differenti modi di ciascuna persona di elaborare le informazioni e le emozioni in situazioni di emergenza. Altri studi hanno inoltre suggerito che avere un maggior numero di testimoni può in alcuni casi rendere più probabile l’intervento di qualcuno e la successiva collaborazione di altre persone.

– Leggi anche: L’assiepamento sui social durante l’invasione dell’Ucraina

Detto che le reazioni a un’aggressione in pubblico sono in parte mediate da meccanismi psicologici su cui si ha un controllo limitato, nel dibattito sui comportamenti più appropriati da tenere ci si chiede spesso se intervenire fisicamente sia la cosa migliore da fare, anche in situazioni in cui potrebbe essere estremamente rischioso.

Uno dei consigli più diffusi per prevenire le aggressioni o ridurre la gravità delle conseguenze è richiedere il prima possibile l’intervento delle forze dell’ordine chiamando il 112 o il 113. In attesa dell’intervento, il suggerimento è di cercare di richiamare l’attenzione di altre persone e coinvolgerle nelle attività di aiuto, evitando di intervenire da soli.

Filmare l’aggressione non è generalmente descritto come un comportamento da evitare in qualsiasi caso, purché questo non escluda la responsabilità di avvisare la polizia e purché non comporti ulteriori rischi per le persone coinvolte nell’aggressione. È inoltre consigliabile che i filmati siano successivamente presentati alla polizia anziché essere diffusi senza autorizzazione e senza proteggere l’identità delle persone.

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