Caffè, qual è il prezzo giusto? Per gli esperti almeno 1,50 euro
La notizia è stata ribattuta più volte: una caffetteria con torrefazione di Firenze ha subito una multa perché un cliente si è lamentato di un decaffeinato a 2 euro. La multa è stata comminata in realtà perché il prezzo non risultava esposto sul menu fornito ai clienti, ma da quel momento in poi sul web tra gli appassionati al settore e non è solo è partito un tam tam importante, incentrato sullo stato dell’arte del caffè in Italia. Amato, amatissimo tanto da aver avuto la Cultura del caffè candidato – e poi respinto – a Patrimonio Immateriale dell’Umanità per l’Unesco. Eppure bistrattato, misconosciuto, spesso vituperato. Perché la domanda è una sola: quanto dovrebbe costare un caffè? E perché i perzzi medi sul mercato non sono più considerati sostenibili dagli esperti di settore, che auspicano lo spostamento del prezzo in un range che vada almeno da 1,50 euro ai 2 euro? Le motivazioni sono da cercare nel grande cambiamento della società e dell’economia mondiale, nelle nuove attenzioni all’ecosostenibilità, e nella necessità, forse, di aggiornare una tradizione che in Italia (la tazzulella di caffè) forse è un mito troppo grande. Siamo davvero sicuri di fare il caffè migliore del mondo o di trattare bene una materia prima così nobile?
«In questo ultimo periodo si è spesso parlato del prezzo della tazzina, per lo più senza considerare i diversi parametri che lo compongono; valutandoli posso dire che oggi è non sostenibile – afferma Andrej Godina, PhD in Scienza, Tecnologia ed Economia nell’Industria del Caffè, tra i primi ad entrare nella discussione -. Credo che non esista nessun altro prodotto in commercio che al variare della qualità non veda cambiare anche il prezzo. Forse non tutti sanno che con una tazzina di espresso venduta attorno a 0,80 euro, non si ottiene un margine di profitto sufficiente per pagare i costi di gestione della caffetteria, a cominciare da quelli del contratto di lavoro del barista professionista che incide non poco, quasi il 50% del prezzo”. Un contratto di lavoro, ricorda e incalza Dario Fociani de Il Faro a Roma, negozio specializzato in caffè di qualità e Torrefazione, “che non è mai stato aggiornato. Ma non solo, noi non abbiamo un contratto nazionale pensato appositamente per noi: quello dei lavoratori del settore caffetteria è equiparato al commercio base. Tutti possono capire che non si può equiparare gli orari e le tipologie di lavoro di un bar e di un barista a quelli di un negozio di camicie e di un commesso standard. Ed è solo una delle idee pregresse e sbagliate che girano attorno a questo nostro mondo, al nostro lavoro. Che però non è solo una questione privata di chi ci lavora, ma una problematica che dovrebbe riguardare tutti”. A partire dai costi della filiera. Su cui ribatte molto Fociani, ma su cui soprattutto Godina ha studiato e lavorato a lungo, stilando alcuni pilastri fissi da considerare: “costi di gestione dell’attività, di affitto, delle utenze, dell’acquisto delle attrezzature (quando sono in comodato d’uso il barista le paga attraverso un rincaro del prezzo del prodotto, anche se spesso non ne ha consapevolezza). Per un bar di medie dimensioni, con un consumo medio di caffè di 3 chili al giorno (circa 350- 400 espressi serviti), il fatturato generato non permette di mantenere l’attività. Da questa premessa” conclude Godina “appare chiara la necessità di una revisione di quello che è l’approccio della vendita del caffè al bar”.
Partendo da dove? Dalla consapevolezza dicono tutti, da Godina a Fociani, passando per Paola Campana, torrefattrice e proprietaria di una bottega di specialty coffee a Pompei, a pochi passi dagli scavi archeologici. “Manca la valorizzazione e la conoscenza della materia prima, totalmente” parte incalzante la giovane imprenditrice. “La formazione è praticamente inesistente ed è per questo che non si può dare esclusivamente la colpa ai baristi, ma ancor di più alle grandi aziende e agli imprenditori che si muovono in questo mondo. Loro lo creano con i loro prodotti e loro dovrebbero in parte curarlo. La materia grezza, come accade per il cibo e per il vino, è necessario che venga conosciuta”. Un parallelismo, quello con altre grandi eccellenze del nostro Paese e della nostra tradizione, che torna anche nelle parole di Dario Fociani: “nel caffè non esiste nella mente della media delle persone la percezione che come per qualsiasi altro prodotto c’è una differenziazione per fasce qualitativo-economiche”. Se per la carne o il pesce si parla di primo taglio, secondo taglio “e via dicendo, non si può prescindere in un mondo come quello di oggi dal distinguere quantomeno il caffè industriale da quello di una piccola torrefazione”. “Per non parlare – chiosa la Campana -, delle varie tipologie di estrazione del caffè, tutte più salutari della classica macchina da bar perché lavorano con temperature più basse e non bruciano la materia prima. Ma che in Italia non si conoscono o quelle che esistono, come la moka se usata bene e la cuccuma napoletana, vengono trattate” un po’ come pezzi da museo. Anche se un piccolo rinascimento comincia a farsi strada, timidamente (molto).
La Carta dei Caffè, un passo necessario. Si tratta di un fenomeno nuovo, che lentamente avanza: alcune torrefazioni dichiarano i caffè contenuti nelle loro confezioni, le origini, il metodo di lavorazione e, nel caso di prodotti particolarmente controllati (e alle cui spalle c’è una filiera etica), come gli specialty, un punteggio che evidenzia in modo oggettivo la qualità. Da questo punto di partenza, in capo per adesso alle piccole torrefazioni etiche “e alle poche di grandi dimensioni” spiega Fociani in un inciso, “come per esempio Lavazza, che sta facendo un buon lavoro nel suo settore”, dovrebbe partire la rivoluzione. Lo sostiene con fermezza Mauro Illiano, winexpert e caffesperto che “in veste di curatore della prima Guida dei Caffè e delle Torrefazioni d’Italia avverto forte la necessità di supportare e incentivare tutti i protagonisti interessati (torrefazioni, caffetterie, ristoranti, hotel, caffetterie, ecc.) a stilare le Carte dei Caffè, che permettano finalmente di sdoganare la tazzina dalla sua costante di prezzo. Ad esempio, come si può pensare di porre sullo stesso piano economico un caffè coltivato in piantagioni intensive a cielo aperto e uno ottenuto da piantagioni site nei luoghi più angusti e impervi del pianeta? E caffè che hanno subito lavorazioni complesse? E paragonare il prezzo di tazzine composte da sola qualità Arabica con miscele a prevalenza Robusta, senza considerare l’enorme varietà qualitativa di entrambe le specie? Il discorso potrebbe continuare per ore, passando da considerazioni di tipo politico, burocratico, ambientale, industriale, questioni afferenti la diversa geografia dei Paesi produttori, il differente costo della manodopera, l’eterogeneità della legislazione vigente nel mondo, e tanto altro ancora. Ma è bene riportare l’attenzione sulla necessità di iniziare a identificare, dividere, classificare ed organizzare il caffè, anzi i caffè, realizzando delle vere e proprie carte, esattamente come avviene per il vino da diversi decenni. Solo così sarà possibile donare a ogni caffè la sua dignità e trasferire al consumatore il senso e la necessità di stabilire diversi prezzi per diversi caffè”. Un parere complesso, specifico, ma che va dritto al punto: “dobbiamo fare in modo che si lavori sull’eccellenza del caffè e che si comprenda tutta la complessità del settore” spiega Paola Campana, più volte citando il lavoro di Illiano e Godina, veri precursori (con un animo da pasdaran del caffè) di questa battaglia. Anche dal punto di vista storico “perché si è davvero a una svolta. Da un lato la tecnologia e il mondo di oggi ci permettono o permetterebbero di conoscere molto di più rispetto al passato” dall’altro, conclude Fociani, “dobbiamo guardare alla cesura verso il passato: una volta c’era un bar per quartiere, o quantomeno per un isolato o due. Oggi nell’arco di 200 metri ne possiamo trovare anche sette. C’è bisogno di differenziazione per poter vivere tutti e di dare la giusta dignità al lavoro di ognuno”.
Sembra a tratti impossibile abbinare discorsi così complessi a un prodotto considerato pop(olare). Non d’eccellenza come il vino, non di nicchia come un grande distillato o una carne proveniente dal Giappone. Eppure è proprio, e su questo tutti concordano: che sia la sbagliata accezione del concetto di popolare a danneggiare la filiera e di questa gli attori più deboli, ovvero il primo (il produttore, spesso allocato nei più distanti angoli del globo) e l’ultimo, il consumatore. “La risposta da dare a questo sistema è innanzitutto la differenziazione del prezzo della tazzina al pubblico, così come accade in un’enoteca con i differenti tipi di vino – continua Andrej Godina. Il caffè della casa deve avere un prezzo minimo di almeno 1,50-2 euro che dipende dalla qualità del prodotto e dalla qualità del servizio offerto”. Come portare questa consapevolezza e questa curiosità al pubblico, oltre che attraverso la formazione del personale di cui già si è accennato? La soluzione in un sogno di Paola Campana: “Così come da anni, decenni, si fa con il vino, si deve portare il caffè tra la gente. Ma non attraverso le porte dei bar, bisogna portarlo al di fuori delle mura in cui solitamente si trova” e proporlo scardinando così le convinzioni che tutti pensiamo di avere sulla tazzina che ci troviamo tra le mani. “Bisogna organizzare, sull’onda lunga anche della Guida ai Caffè e alle Torrefazioni, eventi aperti al pubblico per stimolare curiosità, domande, dubbi, conoscenze. Non possiamo di certo convincere tutti, ma possiamo iniziare. E dobbiamo iniziare adesso, perché il consumatore è pronto. Solo che non sa di esserlo”.