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Azovstal, l’epica tempra di una fabbrica-mondo che ha già sconfitto lo Zar

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Tutta Mariupol, tutta l’Ucraina, tutta un’idea di giustizia, di libertà, di democrazia, di identità, di ribellione, di speranza è asserragliata da due mesi in una vecchia fabbrica diroccata grande quanto una città di media importanza, l’acciaieria Azovstal, data in pegno a un pugno di soldati affamati, disperati, spericolati, per cui fa il tifo un bel pezzo di mondo.

Sono trecento, quattrocento, cinquecento, non si sa e in fondo chi se ne importa. Non hanno che da perdere che la vita, ma è un montepremi da poco per chi si è giù messo in saccoccia l’immortalità. E poi ci sono i civili, i bambini, i vecchi, le donne, i feriti, gli avviliti, i senza dio, tutti poveri ospiti dell’Hotel Angoscia, niente stelle, niente elettricità, niente cibo, niente medicine.

I militari della trentaseiesima brigata dell’esercito ucraino, più i fanatici tanto-peggio-tanto-meglio del Battaglione Azov, che saranno anche fascistoidi, ma stavolta si sono messi dalla parte giusta della storia, incarnand lo spirito di un intero popolo, la sua voglia di non piegarsi, il suo farsi ferro per non essere cenere. Là dentro, nella fabbrica degli spettri che prima riforniva di acciaio il mondo e che ora è un dente cariato della storia, che le foto satellitari ritraggono perennemente avvolta dai fumi degli incendi appicciati dalle bombe che fanno il loro sporco lavoro ventiquattr’ore al giorno, si decide il destino di questa guerra oscena, almeno di questa prima fase.

Mancano due giorni a quel 9 maggio in cui Vladimir Putin, lo Zar di tutte le Russie, sperava di dare in regalo al suo popolo, per la festa della vittoria sul nazismo, un qualche simulacro di successo. Arrivare a lunedì senza aver conquistato Azovstal sarà già uno smacco per quelli che pensavano che la conquista dell’Ucraina fosse una passeggiata di salute in un Paese arrendevole, da fumarsi come una sigaretta. Ma fumare fa male, si sa.

Azovstal non è solo un grande falansterio di capannoni marci e ciminiere sghembe. È lì che si gioca la partita fatidica, quella che decide il campionato. Fin quando Azovstal non cadrà, il Cremlino non potrà dire di aver domato Mariupol, una delle città martiri dell’Ucraina, così importante nel risiko senza dadi, per controllare davvero il Sud del Paese. Azovstal la resistente, la resiliente, è uno sberleffo, uno sbrego, una macchia rossa sopra una tovaglia bianca, una sopraffazione che non proprio riesce a diventare vittoria. Mariupol, Europa. Uno scheletro maledetto, un grumo di macerie e fame. Ma nei cunicoli, nelle viscere, nelle arterie e nei bunker di quelle mura lugubri come un rimorso batte il cuore di un popolo intero, di un mondo che crede ancora che una nazione possa vivere tranquilla la sua autodeterminazione senza dover fare i conti con il delirio paranoico di un tiranno.

Azovstal è una storia lunga, un film infinito di cui ogni giorno sembra arrivare la fine e poi invece no. Quante volte avete letto, su questo giornale e su tutti gli altri, di «assalto finale»,di «resa dei conti», di «ore decisive»? Azovstal è un pezzo di Novecento che si svolge nel Duemila, un assedio letterario, una guerra di posizione, uno spargimento di ansie e attese. Uomini come sorci che brulicano nelle viscere della terra, con cinque bunker antiatomici a proteggerli e poco cibo a nutrirli, che escono ogni tanto in missioni di disturbo, di testimonianza, per prendere in contropiede il destino che sembra sempre in vantaggio, ma poi non si sa mai.

I partigiani dell’Azovstal combattono da quando la guerra ha avuto inizio. Una resistenza insensata e per questo bellissima. Non è mica da questi particolari che si giudica un popolo, o forse sì. All’inizio erano solo un fronte periferico della battaglia di Mariupol, poi sono diventati roba da prima pagina. Qui si fa l’Ucraina o si muore, magari entrambe le cose.

Ad Azovstal la Russia di Putin ha già comunque perso. Certo, arriveranno i giorni in cui i trecento, giovani e forti, saranno morti. Ogni cosa ha una fine, e la storia non prevede un finale diverso dallo sgombero di quel ripostiglio di orgoglio. Sarà un massacro, forse. Oppure sarà un trasloco triste, una storie di vendette e salvezze stente. Ma non importa. Un esercito che si accampa davanti a una tenda di acciaio e aspetta che il nemico si consegni o si suicidi è un bullo senza risorse se non la prepotenza. Un Paese che non riesce a garantire l’evacuazione degli innocenti è un Paese senza vergogna.

Forza Azovstal.

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