Analisi sul testo “Come pensiamo” di John Dewey – di Andrea Vito

Questo volume di John Dewey rappresenta non soltanto un tentativo di porre domande sul contemporaneo in chiave filosofica, ma è anche un bellissimo trattato di pedagogia e scienza dell’educazione.

Nella prima parte, il filosofo statunitense sottolinea l’importanza del pensiero riflessivo, inteso come un ripiegarsi mentalmente su un soggetto e rivolgere ad esso una seria e continua considerazione. Ci si interroga sul senso della riflessione, che implica una sequenza di idee nel senso di “conseguenza”. Il pensiero viene identificato come raffigurazione mentale di qualcosa non attualmente presente e il pensare è dato dalla successione di tali rappresentazioni. Dewey osserva che la catena del pensiero deve tendere a una conclusione stabile: la riflessione implica che qualcosa sia accettato non per se stessa, ma tramite qualcos’altro, che sta per una prova o testimonianza (qui vi è il fondamento della credenza).

Poi, l’autore afferma che la natura del problema fissa il fine del pensiero e il fine controlla il processo del pensiero.

In seguito, Dewey analizza meglio le caratteristiche del pensare. La riflessione rende possibile l’azione accompagnata da uno scopo consapevole ed è determinata da una profonda apertura mentale, ossia dalla libertà dai pregiudizi e da una spontanea propensione al nuovo.

Il pensiero ci permette di conoscere ciò che facciamo quando operiamo: esso trasforma l’azione meramente appetitiva, cieca e impulsiva in azione intelligente. Inoltre, il pensiero arricchisce le cose di significati: esso controlla e arricchisce il valore.

Dewey sostiene che il desiderio di essere in armonia con gli altri è un tratto desiderabile, ma esso può facilmente condurre una persona a cadere nei pregiudizi degli altri, mettendo fuori discussione le credenze del gruppo cui si appartiene.

Tornando al discorso sul pensiero, il filosofo afferma che l’attività del riflettere non è un separato processo mentale: è una questione che riguarda il modo in cui una gran quantità di fatti osservati e suggeriti viene impiegata. Ci sono molteplicità di modi di pensare, in cui le cose specifiche – osservate, ricordate, ascoltate, lette – evocano suggestioni o idee pertinenti a un problema o a un dubbio e spingono la mente verso una conclusione accettabile. Il pensiero è il processo di cogliere in modo consapevole gli elementi comuni.

Il pensare è  un’attività complessa, che richiede del tempo ed è un processo che muta in continuazione (a differenza della logica formale, intesa come strettamente impersonale come le formule dell’algebra).

Dewey sostiene con forza che imparare significa imparare a pensare.

La riflessione implica l’osservazione. Basandosi sui particolari di un dato evento, si formano i dati, su cui si fonda il materiale che dev’essere interpretato, spiegato, chiarito.

Il filosofo si sofferma sul significato profondo del termine giudicare: si tratta dell’atto di scegliere e pesare le conseguenze di fatti e azioni come si presentano e della possibilità di decidere se i fatti presunti siano realmente fatti o se l’idea usata è fondata o una pura fantasticheria. Una volta formulato, il giudizio è una decisione: esso chiude, o conclude, la questione. Attraverso il giudizio, inoltre, i dati confusi vengono chiariti e il chiarimento costituisce l’analisi (il mettere insieme e unificare è la sintesi).

Nella sezione successiva del volume, John Dewey si interroga sul senso del comprendere. Capire significa afferrare il significato. Quando un significato è accettato condizionatamente, in via di prova e di uso, è un’idea, una supposizione; quando è accettato positivamente, allora qualche oggetto o qualche idea sono stati compresi. Afferrare il significato di una cosa significa vederlo nella sua relazione con le altre cose, notare come opera e funziona, da cosa è causato, che impiego può avere. Niente è conosciuto se non in quanto è effettivamente compreso.

Nel corso del testo, Dewey presenta anche un’accurata riflessione sui concetti. Essi sono significati stabiliti: sono mezzi di giudizio perché sono modelli di riferimento. I concetti cominciano con l’esperienza e diventano più definiti con l’uso. Si tratta di qualità che sono generali in ragione del loro uso e della loro applicazione, non in ragione dei loro ingredienti. I concetti aiutano a identificare ciò che non si conosce e integrano i dati sensibili presenti. La sintesi è l’operazione che dà estensione e generalità a un’idea: essa ha luogo tutte le volte che trasporta un significato da un oggetto a un altro ritenuto in precedenza di specie diversa.

In seguito, l’autore presenta alcune riflessioni in merito al metodo sistematico. Si torna a trattare dell’osservazione, che ha valore quando è guidata da ipotesi. Il metodo scientifico include tutti quei procedimenti che regolano l’osservazione e la raccolta dei dati allo scopo di facilitare la formazione di concetti e di teorie esplicative.

I concetti sono strumenti intellettuali che servono a far leva sul materiale della percezione sensibile e della memoria al fine di mettere in luce ciò che è oscuro, portare ordine dove in apparenza c’è conflitto, e unità in ciò che è frammentato e separato.

Il pensiero deve finire così come è cominciato, nel dominio delle osservazioni concrete, se vuol essere un pensiero completo.

Il pensiero scientifico è libero dalla considerazione di ciò che è immediato e urgente: qui torna la proposta kantiana del pensatore inteso come colui che ha tempo.

Poi, Dewey presenta alcune riflessioni sull’esperienza. Essa non è una cosa rigida e chiusa: è vitale, quindi crescente quando dominano in essa il passato, il costume e la routine e spesso è l’opposto di ciò che è razionale e pensante.

Nella terza sezione del volume, Dewey si dedica ad osservazioni in merito all’educazione del pensiero. Le cose sono fuse con le suggestioni che ne emergono: il pensiero genuino si riferisce sempre più o meno direttamente alle cose. Ciò che è astratto in un periodo dello sviluppo umano è concreto in un altro. Dewey presenta la differenza tra pensiero concreto e astratto: quando un pensiero è usato come mezzo per qualunque fine, bene, valore che si trova al di là di esso è concreto; quando è impiegato semplicemente come mezzo per l’ulteriore processo del pensiero è astratto.

In seguito, il filosofo precisa alcuni aspetti in merito alla questione del linguaggio. Mentre il linguaggio non è pensiero, tuttavia è necessario sia al pensiero sia alla comunicazione del pensiero. Qualsiasi cosa deliberatamente e artificialmente impiegata come segno è, da un punto di vista logico, linguaggio. Il linguaggio seleziona, conserva e applica i significati specifici.

Nell’ultima sezione del volume, Dewey si occupa di educazione della mente. Pensare significa ordinare la materia da trattare avendo riguardo alla scoperta di ciò che essa denota o indica. Il pensiero è ricerca, investigazione, riesame, controllo, interrogazione.

A proposito dell’educazione dei giovani, Dewey nota, come durante la recitazione della lezione, il maestro entra più a contatto con l’alunno e mostra tutte le sue abilità di insegnante. Il maestro è il leader intellettuale di un gruppo sociale. Inoltre, l’insegnante deve avere cura della mente libera per osservare le risposte e i movimenti degli studenti che fanno parte del gruppo che è chiamato a “recitare” la lezione. La prova finale di qualsiasi lezione sta nella misura in cui gli allievi raggiungono un apprezzamento essenziale della materia studiata.

Nella parte conclusiva del discorso, Dewey si sofferma su alcune nozioni relative alla differenza tra conscio e inconscio. Il filosofo sottolinea che non esistono regole per raggiungere un ritmo equilibrato delle due fasi di vita mentale. L’inconsapevolezza dà spontaneità e freschezza; la consapevolezza presuppone comando e controllo.

Infine, Dewey presenta alcune osservazioni sul senso dell’immaginazione. L’immaginativo non è necessariamente l’immaginario, ossia l’irreale.

L’immaginazione integra e approfondisce l’osservazione e solo quando degenera nel fantastico diventa un sostituto dell’osservazione e perde il suo potere logico. L’istruzione, in relazione all’analisi sulla prospettiva educativa, corre sempre il rischio di soffocare la vitale, ancorché limitata esperienza personale del bambino sotto la mole del materiale comunicato. L’istruttore lascia il posto all’educatore solo quando la comunicazione della materia viene fatta in modo da stimolare a una vita ben più ricca e significativa di quella in cui si entra attraverso la stretta e angusta porta della percezione sensibile e dell’attività motoria.