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Africa e letteratura la più recondita memoria di Sarr

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Il complimento migliore che si potrebbe fare al romanzo di Mohamed Mbougar Sarr è: non parla di niente. Infatti, ecco che cosa dice uno dei personaggi del suo La più recondita memoria degli uomini (e/o, pagg. 430, euro 19,50, traduzione di Alberto Bracci Testasecca; in libreria dal 7 settembre), nello specifico un traduttore polacco che lavora in Francia: «Non cercare mai di dire di cosa parli un grande libro. O, se lo fai, dai l’unica risposta possibile: di niente. Un grande libro parla sempre e soltanto di niente, ma dentro c’è tutto». Ora, senza nulla togliere al valore del romanzo, che ha vinto il Premio Goncourt 2021, qui si dirà anche, un po’, di che cosa parla. Ovvero: dell’ossessione per la scrittura, del legame fra la letteratura e la vita (e di come tendano a soverchiarsi, a sovrapporsi, a togliersi talvolta la sedia da sotto il fondoschiena l’una con l’altra), dei cliché che imbalsamano l’esistenza e l’opera dei romanzieri (o aspiranti tali), degli stereotipi sul rapporto tra Africa e Occidente, del mondo editoriale francese, dell’amore, del potere, dei miti, del fascino di finire intrappolati in una rete di storie…

Insomma, anche il niente, come l’essere aristotelico, si dice in molti modi. E c’è anche un protagonista: Diégane Latyr Faye, scrittore alla soglia dei trent’anni che, dal Senegal, si è trasferito a Parigi e aspira a creare un capolavoro. Da notare che anche Sarr è senegalese, è nato nel 1990 e vive in Francia. Proprio a Parigi, a Diégane capita fra le mani una copia di Il labirinto del disumano, libro di cui aveva letto per la prima volta in una antologia dieci anni prima, nel 2008, quando era ancora al liceo nel suo Paese. Già allora lo aveva conquistato, per una certa aura di mistero e di leggenda: uscito nel 1938 in Francia, il romanzo aveva fatto gridare prima al fenomeno assoluto, poi allo scandalo; il suo autore, T.C. Elimane, senegalese, era stato definito «il Rimbaud negro» ma, nonostante il clamore, era rimasto sempre nell’anonimato. Alla fine tutte (o quasi) le copie dell’opera erano state ritirate, e il nome di T.C. Elimane relegato a poche righe in un Compendio delle letterature negre dal sapore assai coloniale. Ed ecco che il «giallo letterario» può prendere il via, fra le mani e i pensieri (un poco ossessivi, ma ne è consapevole) di Diégane.

Di che cosa parla Il labirinto del disumano? Di niente, dato che è un capolavoro. Ma anche di un re sanguinario che, pur di ottenere il potere assoluto, bruciò tutti gli anziani del suo regno e fece spargere le loro ceneri, cosicché intorno al suo palazzo crebbe una foresta, «una foresta macabra che venne chiamata il labirinto del disumano». L’enigmatico Elimane ha un effetto quasi ipnotico su chi lo legge: Diégane viene rapito dalla lettura, che continua a ripetere quasi quotidianamente e lo stesso accade ai suoi amici, tutti giovani scrittori e scrittrici di origine africana, che si ritrovano in una specie di circolo, in cui discutono di massimi sistemi e… beh, fanno sesso, se capita. Criticano anche molto, e Diégane spiega bene perché: «Perché proviamo l’angoscia di non trovare niente e non lasciare niente, e in fondo critichiamo noi stessi, esprimiamo il timore di non essere all’altezza, perché ci sentiamo in una caverna senza uscita e abbiamo paura di morirci dentro come topi». E, in queste righe, Sarr sta parlando solo degli scrittori, o di tutti quanti?

Comunque, Diégane non si perde solo nelle sue riflessioni, nella spirale delle frasi, nei riferimenti culturali che spaziano dall’Africa alla Francia, fino all’Argentina di Ernesto Sábato e Witold Gombrowicz, passando per la Grande Storia del Novecento, con le due guerre mondiali, i soldati delle colonie mandati al massacro, l’occupazione nazista di Parigi, l’Olocausto, le primavere arabe… Diégane ha un chiodo fisso: scoprire chi sia T.C. Elimane, risolvere il mistero della sua vita e della sua opera (o, almeno, di una delle due, sempre che non coincidano). E, per farlo, dovrà: entrare in intimità con una scrittrice senegalese di successo, Siga D., che potrebbe essere sua madre e ha il dono di una sensualità travolgente; scavare negli archivi, alla ricerca di articoli sulla polemica suscitata all’epoca; ricostruire la storia del primo e unico editore del libro; cercare qualche testimone; seguire le tracce fisiche di Elimane, magari proprio a casa sua, in quel villaggio nel cuore del Senegal dove tutto è cominciato, ai primi del Novecento. Le chiavi della ricerca sono due: Siga D., che regala la sua copia del Labirinto del disumano a Diégane e, in pratica, lo instrada nella ricerca, sobillandolo a farla diventare un libro e catturandolo nella «tela del Ragno madre», non senza un pizzico di magia nera sullo sfondo; capire perché T.C. Elimane sia scomparso.

A questo proposito si può accennare qualcosa, senza rivelare troppo del romanzo, attraverso le parole di Siga D. sul mondo editoriale/letterario francese: «Ti pare che le cose siano cambiate oggi? Ti pare che si parli di letteratura e valore estetico o piuttosto della persona, di quanto sia abbronzata, della sua voce, della sua età, dei suoi capelli, del cane, dei peli che ha tra le gambe, dell’arredamento di casa sua, del colore della sua giacca? Si parla di scrittura o di identità? Di stile o delle piattaforme mediatiche che ti dispensano dall’averne uno? Di creazione letteraria o di sensazionalismo della personalità?». Che sia per questo che Elimane si è dato alla macchia, per non essere definito con entusiasmo come quello scrittore «bisessuale ateo il giovedì e musulmano cisgender il venerdì», il cui racconto è «magnifico, commovente e così vero»? Conclusione: «È a causa di questa mediocrità promossa e premiata che meritiamo di morire. Tutti: giornalisti, critici, lettori, editori, società. Tutti».

Eppure… Eppure c’è qualcosa che ci tormenta dentro. C’è il passato che, più tentiamo di cancellarlo, più ci si piazza davanti agli occhi e nel cuore. C’è la memoria, che si può provare a distruggere ma, a differenza degli uomini, non si riesce mai a uccidere. E c’è la letteratura, che di memoria si nutre e vive. «Nessuna ferita è unica. Niente di umano è unico. Nel tempo tutto diventa terribilmente comune. Ecco il vicolo cieco. Ma è proprio in questo vicolo cieco che la letteratura ha una possibilità di nascere». E di parlare di tutto e di niente.

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